Il mio percorso come insegnante di danza mi ha portato a sviluppare un metodo di lavoro che si è dimostrato adatto ad un tipo particolare di allievi, la selezione negli anni è avvenuta naturalmente, valutando di volta in volta in quali situazioni riuscivo meglio a comunicare con le persone che avevo di fronte. Oppure potrei meglio dire che sono stati proprio alcuni allievi a scegliermi come insegnante, mentre con altri non si sono mostrati canali di comunicazione percorribili, in quel momento, per le ragioni più svariate. L’allievo tipo che frequenta le mie lezioni è solitamente adulto, pratica danza da diverso tempo, anche se non necessariamente a livello professionale, ha un bagaglio che spazia tra i vari linguaggi coreutici, o pratiche corporee in generale. Normalmente si tratta di persone che utilizzano il training del balletto come un allenamento complementare ad un più vasto programma settimanale di studio o lavoro.
Capita che mi chiedano, ad esempio, di insegnare a bambini sotto ai 12 anni, ma io mi trovo costretta a rifiutare gentilmente, non perché non voglia insegnare ai piccoli, ma semplicemente perché il mio modo di spiegare la danza non è capace di trovare, almeno attualmente, un linguaggio e un ritmo che sia adatto alle loro esigenze motorie e cognitive, per cui declino. Stessa cosa accade quando i ballerini classici partecipano alle mie classi: molto spesso i contenuti che io propongo non vengono considerati utili per chi invece ha bisogno di un allenamento che tenga conto di obiettivi ben precisi, e quindi non tornano più a lezione. Nulla di personale, comprendo benissimo quanto un professionista abbia bisogno di trovare la lezione più adatta alle proprie esigenze tecniche, motorie e sceniche. Ci si sceglie ascoltandosi.
Il target a cui faccio riferimento quindi, molto particolare, è composto da outsider del movimento, ricercatori molto motivati, che mirano ad ottenere risultati ottimali anche a lezione di danza classica, pur non avendo ambizioni sceniche dentro ad un tutù, né alle spalle una preparazione di tipo accademico, a volte anche abitanti di un corpo modellato su esigenze comunicative diverse da quelle del balletto.
Queste condizioni mi portano spesso a scontrarmi con il muro che viene issato, nel loro immaginario, composto da una miriade di idee preconcette sull’estetica del movimento. Il modello di riferimento proposto dal mondo del balletto, soprattutto in questi ultimi anni, guarda ad un concetto di perfezione praticamente inarrivabile, e i danzatori che possiamo ammirare nei video e sulle copertine delle riviste non hanno solo fisici bellissimi e splendidamente scolpiti, ma anche una tecnica impeccabile e virtuosa, bianca e intonsa come la superficie di una porcellana. Chiaramente tutto questo, unito anche ad una intrinseca esigenza estetica tipica di questa forma d’arte così antica, che ha addirittura deciso di formulare un codice in cui ogni cosa viene definita in termini di gradi di rotazione, altezza delle gambe e purezza delle forme, non fa che creare un bagaglio di informazioni che, per quanto utili alla comprensione, possono divenire fuorvianti quando non applicate tenendo conto di un contesto, che è il nostro proprio corpo e anche ciò che dello studio della danza classica vogliamo fare. Pensare solo in termini di efficacia estetica, senza curarsi di questo contesto, per me significa puntare alla quantità e non alla qualità, per questo ogni giorno il mio sforzo è quello di aiutare gli allievi a spostare il punto di vista su ciò che si fa, alleggerendo il carico di frustrazione, senso di inadeguatezza e drammaticità tipica del danzatore quando si pone di fronte l’obiettivo della perfezione, che è concettuale e idealizzato, più che realmente raggiungibile.
Mi piace ridimensionare un po’ il volume di questa zavorra, ma questo non vuol dire abbassare il tiro: si punta sempre al massimo, ma rimanendo focalizzati sul percorso piuttosto che nell’impazienza di raggiungerlo. Questo non provoca mai delusione, perché sostiene il processo di apprendimento, soprattutto quando faccio notare i piccoli progressi quotidiani che vengono fatti. Un modo per restare nel momento presente, nella qualità, senza lasciarsi condizionare dalle aspettative che riguardano il futuro, la quantità.
Mi piace immaginare il syllabus di movimenti che compongono il codice del balletto come un guardaroba completo che ci viene consegnato, così, bello impacchettato. Su tutti questi vestiti poi, sarà necessario praticare un abile lavoro di alta sartoria per aggiustarci questi vestiti addosso: cucire piccole pieghette, allungare qui, tagliare là, allargare o stringere, fino a che ogni capo di questo elegante guardaroba non si trasformi in una preziosa collezione su misura per noi. In questo modo, qualsiasi sarà l’abito che sceglieremo di indossare quel giorno, potremo sentire come ogni sua parte avvolga il nostro corpo fasciandolo, ridisegnandone il profilo ed esaltandone la figura. Alla luce di questo lavoro certosino, metterci addosso i vestiti di qualcun altro ci sembrerà una follia, un gesto sconsiderato e non produttivo: in quegli abiti, infatti, non potremo mai sentirci a nostro agio. Non perché siamo inadeguati a farlo, ma semplicemente perché non sono adatti al nostro corpo. L’arabesque, ad esempio, è un modello di abito dal carattere ben definito nel dettaglio, ma ognuno di noi può crearsi una personale mappa per entrarci, rispettando il senso profondo di quella estetica, ma allo stesso tempo sentendosi a proprio agio, rimanendo sé stessi anche indossando quel sontuoso, raffinato abito d’alta moda.