Questo mese, tanto per cambiare, voglio infilarmi in una discussione che non piacerà a molti e che riguarda, ancora una volta, la povera danza contemporanea, linguaggio sconosciuto e bistrattato. Se la danza, nella sua accezione più ampia, si è guadagnata il soprannome di ‘Cenerentola delle arti’, perché viene sempre lasciata da parte e ormai presa in considerazione da pochi, credo che la danza contemporanea in questo paragone potrebbe essere la scopa di cenerentola, o lo straccio da lei utilizzato per pulire.
L’oggetto della digressione è: quanto il mondo accademico del balletto conosce la danza contemporanea?
È una domanda, questa, che mi faccio da anni, avendo bazzicato entrambi i contesti, e osservato con quale superficialità venga normalmente chiamata ‘danza contemporanea’ quella che dovrebbe essere indicata come danza moderna. Accade persino in contesti illustri, nei quali i danzatori, i coreografi, gli insegnanti e anche il povero pubblico, sembrano proprio non avere gli strumenti culturali per cogliere la differenza tra i linguaggi, come abbiamo avuto più volte modo di parlare proprio su queste pagine. Quando dici danza, in Italia, dici balletto, questo è il riferimento principale, per pubblico e addetti ai lavori, dalla formazione al professionismo. Nonostante la danza sia in costante trasformazione, esistono ancora insegnanti di danza genuinamente convinti che il balletto sia l’unica base possibile per inoltrarsi nello studio del movimento. Ogni volta che sento esprimere questo concetto, per l’ennesima volta, mi vengono i brividi lungo la schiena e mi chiedo se per caso non ho inavvertitamente compiuto un salto temporale che mi ha riportata alla corte di Luigi XIV, fermo restando che secondo me, se fosse vivo oggi, Roi Soleil sarebbe il primo ad interessarsi alla danza contemporanea, poiché era un pioniere assoluto del movimento.
Per restare in tema di regali attributi, direi che il mondo del balletto vive seduto su un trono di cristallo da cui non è mai sceso, neanche dopo Isadora o dopo la rivoluzione americana degli anni ’70, neanche alla luce di ciò che in questo momento sta accadendo nella danza internazionale, con l’introduzione nei linguaggi danzati di principi provenienti dalle tecniche somatiche e dalle arti marziali, dalla street dance alla performance, dalle nuove tecnologie all’integrazione di altre forme di creazione artistica. Niente, se ne sta seduto lì e non si preoccupa di tutto ciò che vortica attorno, fa finta di non vedere, proprio come un vecchio sovrano che non vuole credere al fatto che la monarchia è caduta, e si rifiuta di abdicare.
Quanto il mondo accademico del balletto conosce la danza contemporanea?
Questa domanda si è ripresentata con tutta la sua urgenza mentre guardavo le dirette del Prix de Lausanne, uno dei più prestigiosi premi per giovani eccellenze della danza, quest’anno -lasciatemelo dire con orgoglio – vinto da uno splendido danzatore italiano, Marco Masciari, a cui va tutta la mia ammirazione per come ha condotto quei sei gloriosi giorni, in cui non sempre tutto è andato al meglio, ma che ha gestito con grande maturità e consapevolezza, fino al bellissimo discorso al momento della premiazione. Ebbene, ancora una volta, di fronte alla cura impeccabile dedicata alla parte del balletto, le formidabili lezioni tenute da maestri straordinari, la precisione e la puntualità nelle esecuzioni delle variazioni classiche, ho trovato la parte del contemporaneo, sia le lezioni che le variazioni, non adeguata al livello generale del contesto, nonché anacronistica.
Comprendo che stiamo parlando di un concorso principalmente orientato verso l’accademismo ballettistico, ma a questo punto mi chiedo se non sia meglio dedicarsi solo a quello, o almeno specificare che si tratta di balletto contemporaneo e non di danza contemporanea, perché senza specifica rischia di diventare un messaggio davvero fuorviante. Le coreografie ammesse in concorso, di Mc Gregor, Bigonzetti, Spoerli, tra gli altri, sono sempre le stesse da anni e penso sia necessario rinnovare un po’ il repertorio, anche per dare la possibilità ai ragazzi di vivere l’esperienza con la danza contemporanea, dato che si tratta di danzatori con un incredibile istinto per il movimento, che saprebbero certamente esplorare in questo territorio, nonostante la giovanissima età.
Il tipo di linguaggio proposto, invece, molto formale e di chiara derivazione ballettistica, che viene erroneamente chiamato ‘contemporaneo’, è lo stesso che vedo studiare anche nelle più prestigiose accademie di formazione classica in Europa, nelle quali a volte la proposta didattica comprende addirittura lezioni di danza moderna. Ebbene, credo che questa sia un’area in cui le Accademie di eccellenza per il balletto possono migliorare molto, perché se esiste qualcosa di utile che il ballerino classico può imparare dalla danza contemporanea, è proprio fare esperienza di un movimento che nasce dall’interno, da una motivazione avulsa da qualsiasi concetto estetico, o meglio: l’estetica che emerge da questo tipo di ricerca non risponde alle rigide regole imposte da un codice. Sarebbe un’importante occasione per i giovani allievi per esplorare in un territorio nuovo, che ponga loro domande sulle ragioni che ci spingono a muoverci.
Quanto il mondo accademico del balletto conosce la danza contemporanea?
Parlando delle compagnie, a parte rare eccezioni, come l’Opera di Parigi, dove i danzatori hanno lavorato anche con pionieri della nuova danza quali Pina Bausch, Jeròme Bel, Sasha Waltz, giusto per nominare i più celebri, nelle altre sedi istituzionali è raro assistere ad un simile contatto tra mondi apparentemente così lontani. Viene chiamata danza contemporanea il lavoro di coreografi come Angelin Preljocaj o l’onnipresente Wayne Mc Gregor, che hanno creato meravigliose danze di indubbio valore, ma di certo non hanno molto in comune con il linguaggio della ricerca contemporanea, a partire proprio dalla genesi del movimento.
Il fatto che il mondo accademico sia spesso poco interessato alla contemporaneità è una vecchia storia, che riguarda anche altri ambiti artistici. I musicisti con formazione classica accademica che sono anche improvvisatori liberi dal punto di vista creativo, ad esempio, sono delle perle rare.
Credo di potermi azzardare a dire che si tratta di diverse strategie di vita, di divergenti visioni del mondo, come nella visione Taoista dello yin e lo yang, che però, come tutti sanno, hanno bisogno l’uno dell’altro per poter esistere pienamente.