Quella appena trascorsa è stata la giornata internazionale della danza più triste che io ricordi.
Non dico questo per la situazione in cui il settore versa a seguito dello stato pandemico, che si protrae ormai da un anno e due mesi, ma per quello che è stato fatto e soprattutto NON fatto affinché questa celebrazione diventasse un momento di riflessione per tutti.
Sulle bacheche social fioccavano i post di chi, per questa occasione, ha proposto lezioni gratuite on line, lezioni in streaming dalle compagnie dei teatri, conferenze, chi ha pubblicato le proprie foto danzanti, i propri video, i ricordi, accompagnandoli spesso con le solite parole intrise di vittimismo e note di speranza, già disilluse in partenza. Il mio lucido sguardo di Cassandra sa che questo atteggiamento non porterà nulla di nuovo, e neanche di buono, non si fa altro che corroborare la convinzione, che tutti hanno, che tanto i pagliacci e i saltimbanchi saranno sempre lì, anche col sorriso, pronti a ‘divertire’ (cit.) per un istante di palcoscenico.
Personalmente ho scelto il silenzio, perché tante sarebbero state le cose da dire, ma purtroppo non faccio parte di quella categoria di esponenti della danza che possiedono un qualche potere mediatico, e quindi ho pensato che sprecare energie sui social, dove il mio pensiero non ha alcuna risonanza se non tra quei pochi che ancora mi seguono, non aveva senso. Ho solo pubblicato una immagine nera, scrivendo che più che una celebrazione mi pareva una commemorazione. Oggi, però, qualche sassolino dalla scarpa me lo voglio togliere.
Cominciamo col dire che la speranza in un futuro migliore (“ce la faremo”, “andrà tutto bene”) è un privilegio che spetta solo a chi agisce concretamente affinché questo accada, a chi comprende le criticità dello status quo e porta visioni nuove che possano scardinarlo, non a chi sa solo lamentarsi, comodamente seduto davanti al monitor a sbraitare attraverso i social per poi, come una Rossella O’Hara del nuovo millennio, dirsi “dopotutto, domani è un altro giorno”. Se dopo quasi un anno e mezzo non ci siamo decisi ad agire con intelligenza, e preferiamo alimentare la speranza, allora davvero non vedo un futuro roseo per la danza. Dissociati e masochisti.
Ho letto diverse interviste a personalità famose dello spettacolo, che per questa occasione hanno sfoderato banalità imbarazzanti, quando non hanno parlato solo del proprio lavoro e di sé stessi, dando la propria disponibilità a diventare interlocutori, attori per possibili nuove soluzioni e facendo appelli deliranti diretti a non si sa chi. Possibile che queste celebrità, che finora hanno avuto la fortuna di avere una situazione lavorativa di certo non paragonabile alla maggior parte di noi, non si siano mai presi neanche il disturbo di conoscere e contattare chi sta già lavorando da anni, sempre sul pezzo, a possibili soluzioni per migliorare le condizioni di un settore a rischio estinzione (da ben prima della pandemia, direi)? Possibile non capiscano che potrebbero aiutare, con la loro fama, appoggiando progetti che non sono futuri, ma già attivi nel presente, e che stanno andando proprio nella direzione da loro auspicata? Forse l’ego gli fa credere che al mondo nessuno ci abbia già pensato, passando all’azione, anziché stare a spendere parole? Gli interessa più avere il ruolo di portabandiera di un movimento, metterci il proprio marchio, pisciare quel territorio, che non nutrire un vero processo di cambiamento per tutti?
Nella giornata in cui i bauli hanno protestato in piazza ho visto Fiorella Mannoia e Max Gazzé tra le fila schierate, lavoratori dello spettacolo come tutti gli altri, metterci la faccia: la danza dov’era? Ci consideriamo diversi da loro?
Quante domande. Se qualcuno di voi ha risposte è il benvenuto.
Mi pare evidente che nel nostro settore non è molto chiaro il concetto di “bene comune”, ognuno pensa a portare avanti le proprie istanze, spesso distruggendo e criticando gli altri, e se non fossimo stati in una condizione di emergenza come questa, queste personalità mai si sarebbero sognate di guardare al settore danza, di cercare il supporto dei colleghi per avanzare azioni. Non dico sia sbagliato pensare ai propri interessi, ci mancherebbe, ma navigare da soli all’arrembaggio dei propri territori di conquista, con i paraocchi e senza mai guardare al contesto in cui si opera, per poi pensare che la condizione in cui la danza si trova oggi sia dovuta alla pandemia, scusate la franchezza, ma vuol dire non brillare proprio di intelligenza.
Ci sono colleghi che ancora non colgono la differenza tra il ministero dello sport e quello della cultura, pretendono di essere chiamati professionisti dell’arte ma non vogliono mollare i contratti da dilettanti, per non parlare dell’esercito di lavoratori senza contratto. Oggi abbiamo tanti piccoli movimenti diversi, separati, che hanno una voce flebile e non porteranno a nulla, perché per cambiare le cose ci vogliono conoscenza, proposte concrete, massa critica e unità d’intenti.
Ripeto: unità d’intenti.
Smettiamola di parlare solo di arte, di sacro fuoco, di unti dal Signore, di ispirazione, di emozioni e di sogni. Tutto questo ci ha tenuto a galla finora ma ci ha anche fottuto, perché abbiamo messo il sogno davanti a tutto, anche davanti alla nostra dignità. Adesso serve una discussione pubblica che porti a delle proposte su contratti, tutele, piani di ricostruzione, accesso alle risorse nazionali e europee, paghe adeguate, inquadramento fiscale per le mansioni che svolgiamo, serve che si parli di costo del lavoro e di riconoscimento delle figure professionali. Servono persone in vista che siano disposte a metterci la faccia, senza paura di perdere quei pochi privilegi che sono stati loro concessi e che vogliano agire per il bene comune. Serve che queste persone sentano un appoggio forte da parte di tutti. Bisogna volerlo, altrimenti abbandoniamoci al destino e buonanotte.
Lo so, non sono argomenti allettanti a chi si crede al di sopra di tutto, ma quel sogno con cui ci riempiamo la bocca possiamo dimenticarcelo nel cassetto, se non si agisce adesso, in fretta e in modo unitario oppure si accetta di fare della danza l’hobby della domenica. Non lo dico tanto per me, che ormai ho l’età di un dinosauro, ma per tutti i giovani studenti delle scuole professionali, che ogni giorno investono tutte le loro energie, e noi adulti dovremmo sostenerli anche creando un contesto in cui possano dire che mestiere fanno, senza sentirsi dei reietti.