Eccoci giunti all’ultimo numero di SetteOtto, prima della pausa estiva.
Vorrei poter dire che quest’anno è volato, e che è stato bellissimo scrivere di danza, e che non vedo l’ora di ritornare a farlo, ma vorrei essere totalmente onesta con voi lettori, perché l’ho sempre fatto finora e non mi tirerò certo indietro proprio adesso, nel momento in cui tirare le somme e fare un bilancio di ciò che abbiamo vissuto insieme.
La verità è che ormai parlare di danza, fare della danza la propria quotidianità, vivere mestiere di danza, avendo un minimo di consapevolezza e di cultura per farlo, è diventato un lento e incessante sanguinare da una ferita che non rimargina mai. Se in passato ho tentato di fare qualcosa disinfettandola, usando cerotti e bende, adesso mi sono resa conto che è tutto inutile: l’unica cosa da fare per poter sopportare il dolore è guardarla, osservarla, analizzarla.
Scrivere di danza in questi mesi è stato faticoso, deludente, incendiario, catartico, a volte liberatorio, ma solo temporaneamente. Certe settimane sono rimasta davanti al foglio bianco per ore, anche giorni, senza trovare nulla di interessante che volessi condividere.
Altre ho vomitato un infinito flusso di pensiero su un foglio digitale, con le dita frenetiche che danzavano sulla tastiera del computer. Parole molto arrabbiate, stanche, disincantate. Parole che raramente sono poi arrivate a voi, perché non riguardavano la danza, ma riguardavano me.
Credo di sentire per la prima volta, in fondo al cuore, la voglia di abbandonare tutto, di smettere persino di scrivere, perché l’anno che è appena trascorso è stato così maledettamente duro e povero di risultati, che per arrivare fino alla fine è stato necessario scavare nella riserva delle energie di riserva, dare fondo a tutta la motivazione che io abbia mai potuto avere e che mi ha accompagnata nella mia relazione con la danza dai 6 ai 43 anni.
Poi, però, la danza mi fotte sempre, perché quando sono in sala con i miei allievi (che sono davvero gli allievi che tutti vorrebbero avere) quel fuoco è ancora acceso. Molto affievolito, a volte quasi ridotto ad un mucchio di braci, ma è sempre lì.
Questo non è un bene, non è positivo per me e per il mio equilibrio, perché mi sento incatenata a qualcosa che non è che un riflesso di ciò che era, o che avevo forse idealizzato, per cui ho speso un’intera vita a studiare, ricercare, mettermi in discussione, morire e rinascere.
Una lettrice ha commentato sotto la pubblicazione dell’articolo della settimana scorsa: “Ormai la danza tua ( mia, comprata da me?!) è sorpassata. Ohibò”. Forse è proprio così, ed è questo il motivo per cui non riesco a spiegarmi la grande fatica dell’essere che mi ha colto quest’anno. Non riesco ad accettare il fatto che al giorno d’oggi, se hai tanto studiato e ricercato, questo possa rappresentare un problema e un impedimento alla tua realizzazione professionale, mentre godere di una certa ingenuità e superficialità nelle competenze e conoscenze, doni quel candore che ti fa andare lontano e che fa di te un insegnante ricercato da tutti e perfettamente inserito nel mercato del lavoro.
D’altra parte, però, coloro che tra voi lettori hanno mostrato la propria vicinanza, e che hanno condiviso le mie idee (fisicamente con un click, solo nella mente o con un commento), mi hanno fatto sentire meno sola e isolata. Mi hanno fatto capire che esiste ancora chi davvero compie delle azioni per fare al meglio il proprio lavoro, chi continua a studiare, ad essere curioso, interessandosi non solo di pirouette e di develloppé, ma anche di tutto ciò che riguarda la Cultura, l’Arte nel suo significato più ampio, la Scienza, l’essere umano e la sua condizione, che poi sono il vero nutrimento per chi danza con uno scopo chiaro, che non sia un semplice agitarsi in scena. Gli scambi con voi sono stati molto belli, anche quelli più critici, poiché denotano comunque la volontà di un confronto, atteggiamento che esula da quello maggiormente diffuso nel quale si guarda solo al proprio orticello, ai trofei dei concorsi, ai saggi imperiali, agli attestati del Coni, a parlare male dei colleghi o disprezzare ciò che non si conosce.
Come sempre non è la danza a deludermi, ma lo sono le persone che ne fanno parte.
Alla pochezza della maggior parte dei colleghi, che non hanno alcun interesse a condividere, collaborare, scambiare e mettersi in gioco, si aggiunge la difficoltà di vedersi riconosciuti gli sforzi, non solo economicamente (a questo punto della vita, mi sarei anche stancata di questo mio atavico atteggiamento di repulsione nei confronti dei soldi, dal momento che rappresentano l’energia più potente nelle società capitaliste in cui viviamo), ma anche come persona e come insegnante, uno dei ruoli più importanti, per una società che vuole investire sul suo futuro. Sono anni che navigo da sola, a vista, in un mare melmoso, lo stesso in cui molti di voi che, come me, non vi siete mai piegati a compromessi starete solcando, con le vostre piccole imbarcazioni, così vulnerabili e inadatte ad una simile traversata.
Mi spiace molto lasciarvi con un numero così cupo e pesante.
Forse prima delle vacanze avreste voluto leggere altro, magari con l’Hashtag #ILoveMyJob, totalmente inappropriato per chi non viene neanche riconosciuto come professionista dalla società e dallo Stato, senza neanche un contratto di lavoro che ci inquadri per quello che siamo.
Potrò scrivere di amare il mio lavoro quando questo sarà considerato davvero tale.
Potrò scrivere di amare il mio lavoro quando sarò messa nelle condizioni di farlo nel modo migliore possibile, senza dover ammassare lezioni e progetti, come un accumulatore seriale, per poter sbarcare il lunario.
Per adesso amo quello che ho sempre amato, fin dall’inizio, ossia solo lei: la Danza.
Auguro una buona estate a tutti voi, a tutti noi, che possa essere un momento di riflessione e rigenerazione, per poter ripartire a settembre con una nuova consapevolezza e un cambio radicale di strategia.
Lasciatemi credere che questo possa accadere.