No pain no gain.
Senza dolore nessun guadagno.
Una frase che torna spesso ma raramente ci si chiede da dove arriva.
Le origini antiche di questo detto rimandano addirittura a Sofocle (V secolo a.C.) che nella sua “Elettra” dice : “nulla riesce veramente senza dolore”, “nulla riesce senza fatica” e ancora “senza fatica nulla prospera”.
Ritroviamo questo concetto anche in altre opere letterarie, come il “Pirkei Avot”, tradotto in italiano “Capitoli dei Padri”, un raccolta di insegnamenti e massime rabbiniche, che dice: “secondo il dolore è la tua ricompensa”. In questo caso la frase va interpretata in senso spirituale: senza il dolore nel fare il volere di Dio, non c’è alcun guadagno spirituale.
Bisogna poi fare un salto in avanti fino al 1982 per arrivare al momento in cui questa frase assurge alla popolarità nell’ambito del fitness e dello sport, successo dato da Jane Fonda che in quegli anni cominciò a produrre una serie di video (in pratica uno dei primi tutorial della storia della comunicazione) per guidare le persone a casa nel praticare l’aerobica.
La mitica Jane prese la frase “no pain no gain” come suo motto per spingere i suoi spettatori a sopportare il dolore muscolare e la fatica per ottenere corpi tonici e scolpiti.
Direi che quella che abbiamo davanti è la storia di una evoluzione: una frase viene tramandata per millenni e in questo processo il suo stesso significato assume colori differenti.
Che nulla accade senza sforzo, come dice Sofocle, corrisponde a verità: lo sforzo produce quell’attrito psichico e fisico necessario per produrre un cambiamento, rappresenta il momento in cui stiamo oltrepassando il nostro limite e spostando l’asticella un po’ più in là, si tratta di una modalità impossibile da aggirare. Persino nascere richiede un notevole sforzo per passare da quello che fino a quel momento credevamo essere l’unico mondo possibile (l’utero materno) al grande, immenso mondo che ci aspetta fuori, possiamo dire che la nostra venuta alla luce ci dà già un’idea di quale sia la modalità con cui la vita procede su questo pianeta.
Nell’interpretazione religiosa dei rabbini il sapore di questa frase vira più al dolore e meno allo sforzo. Sofferenza in cambio di risultati. Mi chiedo se davvero Dio voglia questo, se ha permesso la manifestazione cosmica affinché soffrissimo alla sua ricerca e per ottenere la sua benevolenza, ma questo è un discorso in cui non voglio neanche entrare e che lascio in sospeso qui, con questa domanda aperta per la quale ognuno di voi avrà la propria risposta.
Veniamo quindi all’interpretazione odierna, in ambito sportivo, in cui l’assioma che vede correlati il dolore e il guadagno in quantità direttamente proporzionali si è ben radicato nei nostri schemi psichici e mentali, come del resto quasi tutto ciò che arriva dal mondo anglo-americano. I “diversamente giovani” tra noi certamente ricorderanno la bellissima Jane Fonda con i capelli cotonati e quei suoi improbabili outfit da palestra (che stavano bene solo a lei) incalzare i praticanti contando a voce alta le ripetizioni da fare. Questo assioma è ormai diventato parte della narrazione personale di molti atleti, artisti e danzatori, che in questo modo sono portati a spingere sempre di più, nonostante il dolore e l’affaticamento muscolare, con il solo obiettivo di aggiungere risultati, in questa modalità con cui l’America ci ha indottrinati con produzioni cinematografiche epiche come Rambo.
Nulla di male nell’avere obiettivi e nel praticare uno sforzo per ottenerli.
Quello che mi disturba in tutto questo è la presenza del dolore come qualcosa di necessario.
Sia chiaro: chi usa il corpo come strumento di lavoro sa che va incontro ad una esistenza in cui il dolore o l’infortunio possono capitare, ma certo non dovrebbe mai essere considerata una condizione costante, né tantomeno ciò che distingue un’esecuzione corretta da quella che non lo è.
Quante volte, da allieva, mi sono sentita dire: “spingi fino a che non ti fa male”, “ ti fa male? No? Allora non lo stai facendo abbastanza” o peggio “allora non lo stai facendo bene”. Credo sia giunto il momento di spezzare questo incantesimo, abbandonando l’atteggiamento da “eroi della domenica”, per aprirsi alla consapevolezza e soprattutto al rispetto del corpo. Abbiamo oggi tutte le informazioni e le tecniche per poter raggiungere risultati attraverso una tipologia di sforzo che non preveda automaticamente anche il dolore, di qualsiasi entità.
Troppo spesso sento gli allievi dire, tutti soddisfatti, che gli fa male tutto perché il giorno prima si sono massacrati in sala. Il dolore come trofeo, una trappola in cui io stessa sono rimasta ingabbiata per anni, fino a che poi il mio corpo non mi ha fatto capire che era ora di finirla. Durante le lezioni di danza o le pratiche di yoga che facciamo assieme, magari mentre facciamo un lavoro specifico per trovare un muscolo o un gruppo di muscoli, mi dicono preoccupati che “non lo sentono”, al che io gli chiedo cosa voglia dire per loro “sentire” un muscolo e la risposta è quasi sempre: “non lo sento perché non mi fa male”. L’intensità del lavoro muscolare per loro equivale al dolore, sono sinonimi.
Raramente si ha l’accortezza (forse anche la competenza, consentitemi) di guidare gli studenti verso una corretta propriocezione del corpo, attraverso un ascolto sottile, lo sviluppo di strumenti per percepire la geografia interiore e i percorsi delle forze che attraversano il corpo, così l’unico modo che rimane loro per sentire un muscolo lavorare è la sensazione dolorosa.
Mi chiedo: è sano pensare al proprio corpo in questi termini? Quali meccanismi psico-emozionali traccia nel vasto campo dell’Essere un concetto come “no pain no gain”? Siamo proprio sicuri che la consapevolezza, la sensibilità, l’ascolto che la danza richiede debba passare necessariamente da questo percorso?
Lascio a voi la risposta a questa domanda.