Lia Courrier: “Un danzatore che ha vissuto la relazione con la danza con una certa intensità e dedizione, rimane un danzatore per sempre”

di Lia Courrier
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Gli anni passano per tutti, anche per me che credevo di essere immune a questa piaga.
Il tempo scorre inesorabile, se ne frega dei nostri desideri e dei nostri progetti e non guarda in faccia a nessuno: che tu sia famoso o no, ricco o povero, genio o stupido, il tempo prende con sé in modo equanime tutti, trascinandoci nel fiume del cambiamento perpetuo il cui corso può solo avanzare e mai invertire la direzione.

Ricordo ancora la prima volta in cui un giovane ragazzo mi chiese un’informazione chiamandomi “signora” e lasciandomi di sasso (quasi mi voltai indietro per capire se stesse parlando davvero con me), io che percepisco in me la natura di Benjamin Button e mi sento oggi molto più giovane di quando avevo 20 anni. Purtroppo ciò che sento dentro non corrisponde alla mia immagine esteriore e da allora tutti si rivolgono a me usando quell’appellativo che mi pare una nota stonata, abbinato alla mia persona.

Da qualche tempo capita anche che nei materiali promozionali degli eventi di danza con cui collaboro, io venga presentata come ex-danzatrice. Il che in parte è vero, perché effettivamente da secoli ormai non calco più le scene per danzare, essendomi dedicata all’insegnamento per mille motivi di cui non starò qui a spiegarne la natura. Però anche questa è una definizione che non voglio e non posso accettare, perché chi ha abbracciato la danza con tale dedizione, passione, trasporto, vocazione, secondo me rimane danzatore per sempre.

La danza è il filtro attraverso cui guardo il mondo.

Persino quando faccio le pulizie di casa, quando cammino per andare a prendere la metropolitana, quando cucino, io danzo. La vita stessa è una danza che cerca di mantenersi sul crinale tra equilibrio e disequilibrio attraverso un’abile gestione del movimento. Quando guardo le persone spostarsi attraversando una piazza, una stazione o nel saliscendi quotidiano sulle scale mobili, io vedo una danza inconsapevole e meravigliosa in cui corpi seguono traiettorie secondo un ritmo e un’armonia perfettamente concertate. Se chiudo gli occhi vedo movimento, dinamismo, pennellate vigorose sulla tela della mia immaginazione, scie di movimenti che incessantemente si presentano all’attenzione della mia mente, specialmente quando ascolto la musica. Persino il suono meccanico dell’allarme di una macchina scatena in me l’impellente bisogno di muovere il corpo seguendone il ritmo. Non esiste scissione possibile tra me e la danza, siamo in simbiosi da ormai 40 anni quindi non vedo proprio come possa considerarmi un’ex-danzatrice.

Chiaro, non ho più contratti come tale, non ricevo più compensi per le mie prestazioni sceniche, non sono più lo strumento di un coreografo all’interno di una compagnia, ma non esiste interruzione da allora ad oggi nella mia relazione privata con la danza, il fatto che non abbia più un inquadramento contrattuale/fiscale legato a quest’arte non fa di me una EX.

Ricordo una struggente sequenza filmata, di qualche secondo appena, in cui si vede un Nijinsky irriconoscibile, appesantito dall’età e dalle cure che aveva ricevuto nell’ospedale psichiatrico in cui ha trascorso molti anni, che accenna qualche passetto di danza. Indossa una camicia e un paio di pantaloni dal taglio tipico dell’epoca mentre esegue un movimento guizzante, con un piccolo saltino in una forma estremamente plastica, mossa da spirali, piena di gioia e ritmo, mostrando tutta la sua abbacinante grandezza di danzatore.

Uomo dalla straordinaria creatività, bellezza, talento, Nijinsky è una leggenda della storia della danza, capace di accendere le folle fino al delirio o alla totale disapprovazione. Nijinski scatenava emozioni, era improbabile che potesse lasciare indifferente chi aveva il privilegio di assistere ad una sua esibizione. Nei suoi diari, così veri e crudi (che consiglio a tutti di leggere), parla della sua visione dell’esistenza, dell’errore di valutazione che porta le persone a mettere fama e denaro prima di ogni cosa, parla dell’amore per la natura, del suo rifiuto di nutrirsi di animali, di questa entità che vive in lui e che chiama Dio, parla della sua paura di essere rischioso e che legge negli sguardi delle persone che gli stanno attorno. Leggendoli sono stata più volte mossa da commozione per quest’uomo così sensibile, cui venne diagnosticata la schizofrenia, così trascorse l’ultima parte della sua vita da un ospedale psichiatrico all’altro, in cui fu sottoposto ovviamente a elettroshock e altre pratiche invasive nel tentativo di curarlo.

Nonostante questa storia terribile, verso la fine dei suoi giorni, qualcuno lo riprende mentre il suo corpo ricorda, risponde ad un istinto atavico e irresistibile che da sempre lo ha posseduto, in quella scintilla di bellezza impressa sulla pellicola. In quel momento smette di essere il paziente psichiatrico Vatslav Fomich Nizhinsky e torna ad essere la leggenda che ha infiammato le platee per meno di un decennio.

Non intendo certo paragonarmi a Nijinsky, che considero genio assoluto e artista immortale, racconto questa storia solo per corroborare la mia tesi secondo cui se un danzatore che ha vissuto la relazione con la danza con una certa intensità e dedizione, rimane un danzatore per sempre, fino a che l’ultimo respiro non verrà esalato e forse, chissà, potrebbe continuare a danzare anche dopo.

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