Ascolto spesso bellissimi racconti dalle mie colleghe, che mi parlano di alcuni loro allievi, che seguono da quando erano piccolissimi. Li hanno visti crescere e maturare come esseri umani e come danzatori, assistendo ai loro cambiamenti, alle trasformazioni, a tutti quei processi che fanno parte della crescita di un individuo. Si tratta di legami che possono essere considerati, a tutti gli effetti, legami familiari. In alcuni casi straordinari questi allievi, una volta diventati adulti, hanno avuto dei figli che, compiuta l’età giusta, sono stati portati nella stessa scuola di danza nella quale studiavano i genitori. Questo mi fa capire quanto la danza sia importante non solo per il piacere di chi la guarda ma anche come potente strumento di aggregazione e condivisione, senza alcun obiettivo performante o che riguardi esclusivamente la scena. Sono storie molto belle che ascolto sempre con ammirazione, perché tenere una relazione così a lungo non richiede solo di conoscere la tecnica, anzi, a volte questo aspetto diventa secondario, in confronto all’importanza di essere una persona accogliente e presente in ogni aspetto della relazione tra insegnante e allievo. Confesso che trovo più coerente, come insegnante, una persona che magari non ha una eccellente padronanza della tecnica, ma che si rivolge sempre con gentilezza e amore ad ogni allievo, piuttosto che un ballerino blasonato che però tratta tutti a pesci in faccia.
Purtroppo nella mia esperienza di insegnante non ho mai avuto relazioni così lunghe: conosco gli allievi quando sono già adulti, perché hanno deciso di fare della danza una professione, li vedo per un paio di anni, tre al massimo, poi volano via alla ricerca del loro posto nel mondo. Nella maggior parte dei casi perdo ogni contatto con loro, altre volte invece la relazione continua, ma a distanza, poiché sappiamo bene come per fare questo lavoro si debba per forza andare via da qui. La brevità della nostra relazione, comunque, non impedisce l’instaurarsi di un legame profondo, anzi, in questo tipo di percorsi ci si vede quasi tutti i giorni, il tempo è molto denso e il vissuto intenso, dal punto di vista emotivo è tutto esponenzialmente ingigantito, poiché la posta in gioco è molto alta. Gli allievi che decidono di intraprendere un simile percorso, scelgono di mettere a disposizione il loro corpo, la loro mente e il loro cuore in un modo totalizzante. Solo con il passare degli anni mi sono resa conto di quanto ogni mia parola detta, ogni gesto, ogni tocco, sia stato memorizzato, analizzato ed elaborato da ognuno di loro. Gli allievi sono totalmente proiettati verso l’insegnante, assorbono ogni informazione, a livello conscio o meno, riescono a leggere il suo umore, il suo stato, la sua presenza.
Quando si affronta una formazione professionale per diventare danzatori si è consapevoli di intraprendere una difficile strada, dove la selezione naturale è spietata e non sempre il talento e la bravura vengono premiati. Le audizioni sono un gioco d’azzardo nel quale spesso i giocatori non conoscono i criteri e le regole del banco. È abbastanza frequente che lungo questo percorso, tutt’altro che lineare, ci siano momenti in cui la curva di miglioramento cambia la sua forma, poiché fa parte dell’ordine naturale delle cose. Queste sono fasi delicate da attraversare, durante le quali possono presentarsi crisi, ripensamenti, rimessa in discussione di tutto, con una conseguente difficoltà a rimanere concentrati nei propri progetti. Gli insegnanti sono chiamati a supportare emotivamente gli allievi, ma senza mai perdere di vista gli obiettivi, perché stiamo formando danzatori, ossia persone che si sentiranno dire tante volte di no, che saranno criticati e scartati alle audizioni, e quindi bisogna anche costruire insieme dei meccanismi di protezione che aiutino a elaborare questo tipo di esperienze e andare avanti. Inoltre bisogna stimolare quella autodisciplina che ti porta in sala a studiare, allenarti e prepararti, anche quando non hai lavoro, quando non hai voglia o tempo. Insomma: possiamo essere accoglienti, ma entro una certa misura, altrimenti si rischia di ammorbidire la loro forza di volontà e la combattività.
Quando però arrivo alla fine dell’ultimo anno, tra me e il gruppo si è instaurata quella complicità per cui mi basta un gesto o una parola chiave per vederli immediatamente reagire, gli allievi sono in grado di autoamministrarsi e si spingono al limite in ogni momento della lezione: solo allora comprendo che in quell’atteggiamento c’è tutto il lavoro fatto insieme. Tutte le risate, la fatica, le incomprensioni, i pianti, gli abbracci, le piccole conquiste quotidiane.
Se da un lato sono soddisfatta di ciò che è stato costruito insieme (non solo per merito mio, ovviamente, ma grazie alla collaborazione con colleghi fantastici con i quali sono in costante confronto), dall’altro vengo colta da un insopprimibile sentimento di nostalgia. Già nelle ultime lezioni sento il distacco, una distanza che comincia a dilatarsi tra me e loro, so già che a ottobre non saranno più in sala con me. Sento la mancanza di ognuno, ma anche del gruppo, che è un’entità ulteriore rispetto alle singole unità che lo compongono.
Guardo già alle prossime giovani leve che arriveranno, con cui ogni anno si riparte da zero, in questo processo infinito che è l’apprendimento dell’arte del movimento: loro saranno certamente diversi, per questo dovrò trovare nuove chiavi per fare breccia nella loro attenzione, ma allo stesso tempo anche io sarò diversa, poiché i loro predecessori mi hanno permesso di imparare, di osservare nuovi aspetti, di trovare trucchetti e sequenze mai fatte in precedenza. Ed ecco il modo in cui gli allievi aiutano gli insegnanti a migliorarsi, lasciando al contempo una importante eredità a chi verrà dopo. E non se ne rendono neanche conto, di che immenso dono sono capaci di fare.
Nel mio lavoro non può esserci attaccamento. Non mi viene di chiamarli i ‘miei’ allievi, poiché arrivano come uccelli migratori, hanno ali per volare e fin dal primo giorno so che non appena la stagione sarà trascorsa, seguiranno la loro natura. Sprezzanti del pericolo, forti della loro giovinezza e di tutto ciò che siamo riusciti a trasmettergli nel tratto percorso insieme, sorvoleranno le nostre teste alla ricerca di un altro luogo su cui posarsi almeno per un po’.
Così, ho imparato anche ad accettare di essere dimenticata da persone a cui ho dato tutto quello che avevo, perché l’ho fatto come un atto di generosità nel suo stato più puro, quello in cui non ci si aspetta nulla in cambio. Il mio cuore esulta, però, quando qualcuno di loro, a distanza di qualche tempo, si fa sentire, o mi fa la sorpresa di venire a lezione da me, come ai vecchi tempi, e poi ci raccontiamo cosa abbiamo fatto e cosa faremo, riprendendo quel filo teso anni prima, che sembra non essere mai stato reciso.
Grazie a tutti voi, cari allievi, vi voglio bene e spero che ognuno di voi possa trovare ciò che desidera, qualunque cosa sia. Che la gioia possa accompagnarvi sempre nella vostra danza.