“La mia vita è danza. Per me, vivere e danzare sono la stessa cosa. La danza è vita ma vissuta in modo totale, la vita celebrata. Sono nato danzando come tutti ma poi ho rifiutato di fermarmi. Sono nato celebrando, ho dedicato la mia vita a perfezionare questa danza per far sì che divenisse un’opera d’arte.”
Il 3 maggio 1938 nasce Lindsay Kemp, artista che ha vissuto danzando. Fin da bambino, durante la seconda guerra mondiale, intrattiene i vicini di casa nei rifugi durante i bombardamenti nella sua città South Shieds, nel nord dell’Inghilterra. Insieme ad altri bambini del posto crea piccoli spettacoli per rendere meno rigidi gli anni del collegio. Quando entra nella “Rambert School” il suo studio e il suo lavoro si fanno più sofisticati poiché risentono delle influenze dei grandi coreografi come Antony Tudor, Frederick Ashton e più tardi Roland Petit, John Cranko, Kenneth MacMillan, Martha Graham, Josè Limon, Paul Taylor etc. Nel 1964 forma la sua prima compagnia e quattro anni più tardi, nel 1968, debutta “Flowers”, il cui successo arriva a Londra nel 1974 portando Kemp alla ribalta del palcoscenico mondiale.
Si considerava “una gazza ladra di cose belle” che prendeva in prestito, rubava, imitava, reinventava elementi da ogni cultura ereditata dal passato e che confluiva nel suo teatro-danza destinato a diventare una delle influenze più importanti degli anni Settanta e Ottanta in tutta Europa, in America del Nord e del Sud, in Israele, Giappone, Australia. Gli anni d’oro del cinema muto, la commedia dell’arte, il musical, il cabaret, le belle arti, l’arte moderna, il teatro balinese, il teatro kabuki, il teatro della trance, il teatro della magia, la natura, tutto questo in un teatro danza esotico, erotico, emotivo, spettacolare, giocoso, cattivo, nostalgico, passionale, tragico, tragicomico, crudele. Per Lindsay, tutto questo è danza! Lui si considerava un danzatore e le sue esibizioni erano spettacoli di danza connotati, soprattutto, dall’elemento onirico.
“Cos’è per lei il sogno? Il mio lavoro è motivato da intuizioni, emozioni e non dall’intelletto. Se ne viene fuori un aspetto onirico è imprevisto e imprevedibile, come i miei gesti.”
I suoi gesti, e quindi il suo corpo, sfoggiavano una potente forza iconica cosicché quello che il suo volto e il suo corpo manifestavano diventava indimenticabile. Per questo, i suoi spettacoli, per il pubblico, erano esperienze in cui sperimentare qualcosa di straordinario e inconsueto, in cui fermare o trattenere il respiro, perché sbalorditi o commossi. Lindsay Kemp non ha mai reso l’autoreferenzialità né una condizione da considerare in fase di creazione ne un obiettivo prefissato. Ma neanche è stata una conseguenza raggiunta inconsapevolmente tanto era forte in lui la dimensione dell’altro, sia esso danzatore o spettatore. Ripeteva sempre ai suoi danzatori:
“per te, per voi”, tutto ciò che faceva era per gli altri. “Per me i momenti più gioiosi sul palcoscenico sono i momenti quando piango alla fine dello spettacolo. Non solo perché sento l’amore del pubblico ma perché sento che il pubblico mi ha creduto.”
Il ballerino si riferisce ai saluti finali che spesso costituivano un vero e proprio rituale, altra componente essenziale del suo teatro, (il ringraziamento dopo il finale iconico di Flowers rappresenta un rituale di nascita). Forse il primo rito era quello del trucco a cui l’artista dedicava due ore prima dell’inizio dello spettacolo. Un “gioco” di travestimenti e di fantasticherie mediante il quale, sul palcoscenico, entrava in uno stato di follia (che lui ebbe modo di frequentare quando venne rinchiuso nell’ospedale psichiatrico a seguito della dichiarazione della sua omosessualità) pur rimanendo sempre sé stesso.
Lindsay Kemp, oltre a danzare e coreografare, ha disegnato e dipinto quadri, recitato con grandi registi nel cinema, curato una dozzina di regie di opere lirica e ha sempre insegnato con passione. Tra i suoi allievi, due sono diventati artisti di successo: Kate Bush e David Bowie. Con quest’ultimo ha avuto una relazione sentimentale oltre che artistica. Dopo aver ascoltato in diffusione la sua canzone, “When I live my dream”, David Bowie, incantato dallo spettacolo, si recò in camerino. Fu il loro primo incontro e l’inizio della frequentazione.
Nonostante la sua omosessualità dichiarata e manifestata, Lindsay Kemp non realizzò mai un teatro-danza omosessuale ma a lui interessava “dimostrare l’ermafroditismo del mondo” perché “siamo tutti ermafroditi”.
Dopo aver girato il mondo, Kemp decise di stabilirsi a Livorno. Amava l’Italia (ove arrivò per la prima volta invitato da Romolo Valli) e si sentiva attratto dalla sua cultura, dalla sua storia, dalla sua gente. Della città di residenza apprezzava soprattutto il mare e il porto che evocavano la sua infanzia, il suo paese e suo padre marinaio. Qui continuò a vivere e danzare totalmente, ad alimentare la sua opera d’arte per rendere il mondo un posto migliore, elevando gli spiriti e incoraggiando la libertà tra le persone.
“Ci sono momenti in cui la mia vita imita la mia arte. Ma la mia arte non ha mai imitato la mia vita. La mia arte è iniziare la mia vita ogni volta di nuovo. È una celebrazione della vita ma è la vita che riceve una forma…. senza il caos che è la vita”
Crediti fotografici: Allan Warren