Lo Schiaccianoci ha affascinato il pubblico per generazioni, lasciando ricordi di famiglia e facendo sognare di essere sul palco noi stessi un giorno.
Una fascinazione che il balletto ha esercitato prima solo in Europa dalla sua prima mondiale, il 17 dicembre del 1892 al Teatro Mariinsky con le coreografie di Lev Ivanov su libretto di Marius Petipa. Infatti, solo nel 1944 è stato eseguito per la prima volta negli Stati Uniti il 24 dicembre al War Memorial Opera House con il San Francisco Ballet e la coreografia di William Christensen che lanciò una tradizione festiva nazionale (in realtà una versione ridotta era stata ballata negli Stati Uniti dal Ballet Russe de Monte Carlo nel 1940, ma Christensen voleva creare la prima produzione completa de Lo Schiaccianoci in America e scrisse al Library of Congress per una copia completa della partitura di Čajkovskij).
Dalla metà degli anni quaranta il balletto natalizio per antonomasia è diventato un appuntamento irrinunciabile per il pubblico di tutta la baia che ormai dal 2004 si identifica con la produzione di Helgi Tomasson al timone della compagnia californiana per 37 anni (1985 – 2022). Il coreografo ha elaborato la sua visione del balletto durante le sessioni di pianificazione con lo scenografo Michael Yeargan e i costumisti e i designer delle luci Martin Pakledinaz e James Ingalls. Insieme decidono di ambientare Lo Schiaccianoci nella San Francisco dell’inizio del XX secolo per rendere omaggio alla città che ha ospitato l’esordio americano del balletto. Le scenografie rappresentano la città ricostruita dopo il terremoto del 1906 mentre le danze internazionali del secondo atto si ispirano alle mostre esotiche dell’Esposizione Internazionale Panama Pacific del 1915.
Senza riportare la sinossi nota più o meno a tutti, soffermiamoci sui momenti più salienti e rappresentativi di questa produzione americana. Per complessità, ricercatezza ed esaustività si impone la battaglia tra i topi e l’esercito dei soldatini ben organizzato e composto da quattro gradi diversi, ufficiali, fanteria, artiglieria e cavalleria, distinguibili sia per la coreografia che per le loro uniformi che mettono in evidenza i ranghi distintivi. I soldati marciano ordinatamente fuori dall’armadietto dei giocattoli portando una bandiera e un tamburo mentre i membri della fanteria armati di fucile marciano con perfetto sincronismo, l’artiglieria tira fuori il grosso cannone e la cavalleria con le spade alzate affronta i topi in un combattimento corpo a corpo. Nel secondo atto, da sotto la gonna di Madame du Cirque sbuca l’orso grizzly, uno dei simboli più duraturi della California di cui adorna la bandiera e il sigillo dello stato.
Quindi, non sorprende che in 75 anni e 5 produzioni, Lo Schiaccianoci del San Francisco Ballet abbia presentato almeno 3 diversi orsi danzanti: nell’ultima di Tomasson, disegnato da Martin Pakledinaz, l’orso balla con i buffoni, battendo anche i talloni in una verticale che provoca la gioia di tutti. Nonostante la fugacità della danza, memorabile è il momento del Gran Pas de Deux danzato magistralmente da Misa Kuranaga e Joseph Walsh (recita del 15 dicembre – ore 19:00).“Un adagio destinato a produrre un’impressione colossale”, aveva chiesto Petipa. Ma in realtà il compositore russo, afflitto per la prematura scomparsa della sorella Alexandra, scrive una pagina di grande intimità, malinconia e pathos musicale.
Quando si vede o si scrive dei balletti musicati da Čajkovskij è irriducibile la tentazione di spendere qualche parola sulla sua musica soprattutto quando l’esecuzione dei 65 maestri del San Francisco Ballet Orchestra diretti da Martin West ne regalano un’interpretazione commovente, non solo dei momenti più lirici. Eppure il compositore, nonostante apprezzasse la storia dello Schiaccianoci originariamente scritta da ETA Hoffmann, non entusiasta dell’ambientazione Candyland del balletto, subì una battuta d’arresto superata soltanto durante i viaggi in Francia e negli Stati Uniti nel 1891, regalandoci un capolavoro che continua ad essere apprezzato dal pubblico oggi con lo stesso entusiasmo di quando fu presentato per la prima volta.
Dettagliatissimi sono gli oggetti di scena vitali per la narrazione: dalla neve (Lo Schiaccianoci del SF Ballet è noto proprio per l’enorme quantità di fiocchi di carta che cade durante gli ultimi momenti del Valzer dei fiocchi di neve) e le uova Fabergé da cui saltano fuori i russi fino ai nastri della variazione “francese” e le foto sopra il caminetto nella scena della festa che rappresentano i fratelli Christensen, i fondatori del compagnia, da bambini con i loro genitori e da adulti.
Proprio quest’ultimo elemento, che funge quasi da indizio, ci ricorda nuovamente come è nata questa compagnia di balletto che nel tardo pomeriggio di un autunnale giorno invernale ha sfoggiato la più grande produzione che abbia mai intrapreso con 172 costumi, un cast di oltre 73 membri della compagnia e 91 studenti della scuola.
Helgi Tomasson, con il prezioso contributo di scenografi e costumisti, ha realizzato un sontuoso ritrovo identificativo e risolutivo: il finale ci riconduce nel salotto degli Stahlbaum, dove Clara (interpretata dall’allieva Mitsuki Denman) appena sveglia, la mattina di Natale, tiene fra le mani il suo schiaccianoci mentre noi spettatori godiamo del regalo natalizio che la danza continua a donarci.
Foto: @Erik Tomasson