L’ultimo omaggio alla danza di Rudolf Nureyev

di Giada Feraudo
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Un vibrante e sentito commiato alla danza e alla vita, l’esperienza e il sentimento di un artista che ha raggiunto i più alti vertici partendo dalla povertà, quella vera, conoscendo il sacrificio per guadagnarsi l’esistenza e poi il successo. Un prezzo altissimo, ma che valeva la pena di pagare. Riportiamo di seguito un brano, da tempo virale sul web, che attraverso la raffinata penna dello scrittore irlandese Colum McCann dà voce all’anima di uno dei più grandi danzatori di tutti i tempi: Rudolf Nureyev.

(Per una ricerca più approfondita riguardo alla genesi di questo scritto rimando all’interessante post sul blog di Nina Ferrari. Qui il link https://www.tuobiografo.it/post/2017/06/30/grandi-biografie-rudolf-nureyev-e-la-sua-danza )

«Era l’odore della mia pelle che cambiava, era prepararsi prima della lezione, era fuggire da scuola e, dopo aver lavorato nei campi con mio padre perché eravamo dieci fratelli, fare quei due chilometri a piedi per raggiungere la scuola di danza.

Non avrei mai fatto il ballerino, non potevo permettermi questo sogno, ma ero lì, con le mie scarpe consunte ai piedi, con il mio corpo che si apriva alla musica, con il respiro che mi portava sopra le nuvole. Era il senso che davo al mio essere, era stare lì e rendere i miei muscoli parole e poesia, era il vento tra le mie braccia, erano gli altri ragazzi come me che erano lì e forse non avrebbero fatto i ballerini, ma ci scambiavamo il sudore, i silenzi, la fatica. Per tredici anni ho studiato e lavorato, niente audizioni, niente, perché servivano le mie braccia per lavorare nei campi. Ma a me non interessava: io imparavo a danzare e danzavo perché mi era impossibile non farlo, mi era impossibile pensare di essere altrove, di non sentire la terra che si trasformava sotto le mie piante dei piedi, impossibile non perdermi nella musica, impossibile non usare i miei occhi per guardare allo specchio, per provare passi nuovi. Ogni giorno mi alzavo con il pensiero del momento in cui avrei messo i piedi dentro le scarpette e facevo tutto pregustando quel momento. E quando ero lì, con l’odore di canfora, legno, calzamaglie, ero un’aquila sul tetto del mondo, ero il poeta tra i poeti, ero ovunque ed ero ogni cosa.

Ricordo una ballerina, Elèna Vadislowa, famiglia ricca, ben curata, bellissima. Desiderava ballare quanto me, ma più tardi capii che non era così. Lei ballava per tutte le audizioni, per lo spettacolo di fine corso, per gli insegnanti che la guardavano, per rendere omaggio alla sua bellezza. Si preparò due anni per il concorso Djenko. Le aspettative erano tutte su di lei. Due anni in cui sacrificò parte della sua vita. Non vinse il concorso. Smise di ballare, per sempre. Non resse la sconfitta. Era questa la differenza tra me e lei. Io danzavo perché era il mio credo, il mio bisogno, le mie parole che non dicevo, la mia fatica, la mia povertà, il mio pianto. Io ballavo perché solo lì il mio essere abbatteva i limiti della mia condizione sociale, della mia timidezza, della mia vergogna. Io ballavo ed tenevo l’universo tra le mani e, mentre ero a scuola, studiavo, aravo i campi alle sei del mattino, la mia mente sopportava tutto perché era ubriaca del mio corpo che catturava l’aria.

Ero povero, e sfilavano davanti a me ragazzi che si esibivano per concorsi, avevano abiti nuovi, facevano viaggi. Non ne soffrivo, la mia sofferenza sarebbe stata impedirmi di entrare nella sala e sentire il mio sudore uscire dai pori del viso. La mia sofferenza sarebbe stata non esserci, non essere lì, circondato da quella poesia che solo la sublimazione dell’arte può dare. Ero pittore, poeta, scultore. Il primo ballerino dello spettacolo di fine anno si fece male. Ero l’unico a sapere ogni mossa perché succhiavo, in silenzio, ogni passo. Mi fecero indossare i suoi vestiti, nuovi, brillanti e, dopo tredici anni, mi dettero la responsabilità di dimostrare. Nulla fu diverso in quegli attimi in cui danzai sul palco, ero come nella sala con i miei vestiti smessi. Ero e mi esibivo, ma era danzare che a me importava. Gli applausi mi raggiunsero lontani. Dietro le quinte, l’unica cosa che volevo era togliermi quella calzamaglia scomodissima, ma mi raggiunsero i complimenti di tutti e dovetti aspettare. Il mio sonno non fu diverso da quello delle altre notti. Avevo danzato e chi mi stava guardando era solo una nube lontana all’orizzonte. Da quel momento la mia vita cambiò, ma non la mia passione ed il mio bisogno di danzare. Continuavo ad aiutare mio padre nei campi anche se il mio nome era sulla bocca di tutti. Divenni uno degli astri più luminosi della danza.

Ora so che dovrò morire, perché questa malattia non perdona, e il mio corpo è intrappolato su una carrozzina, il sangue non circola, perdo peso. Ma l’unica cosa che mi accompagna è la mia danza, la mia libertà di essere. Sono qui, ma io danzo con la mente, volo oltre le mie parole ed il mio dolore. Io danzo il mio essere con la ricchezza che so di avere e che mi seguirà ovunque: quella di aver dato a me stesso la possibilità di esistere al di sopra della fatica e di aver imparato che se si prova stanchezza e fatica ballando, e se ci si siede per lo sforzo, se compatiamo i nostri piedi sanguinanti, se rincorriamo solo la meta e non comprendiamo il pieno ed unico piacere di muoverci, non comprendiamo la profonda essenza della vita, dove il significato è nel suo divenire e non nell’apparire. Ogni uomo dovrebbe danzare, per tutta la vita. Non essere ballerino, ma danzare.

Chi non conoscerà mai il piacere di entrare in una sala con delle sbarre di legno e degli specchi, chi smette perché non ottiene risultati, chi ha sempre bisogno di stimoli per amare o vivere, non è entrato nella profondità della vita, ed abbandonerà ogni qualvolta la vita non gli regalerà ciò che lui desidera. È la legge dell’amore: si ama perché si sente il bisogno di farlo, non per ottenere qualcosa od essere ricambiati, altrimenti si è destinati all’infelicità. Io sto morendo, e ringrazio Dio per avermi dato un corpo per danzare cosicché io non sprecassi neanche un attimo del meraviglioso dono della vita».

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2 comments

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Enrico Ripari 7 Gennaio 2022 - 8:48

Le sue parole, forse perché ho raggiunto l’età di 63 anni, mi fanno vibrare di gioia, io ho danzato con la fotografia ed ancora esercito, per quello che mi riguarda ho ottenuto il mio successo interiore oltretutto riconosciuto. Mi sento molto vicino al suo pensiero in cui esprime tutto l’amore per ciò che ama fare e questo amore Suo ma destinato a tutti lo ricambia rendendolo umanamente esempio immortale. Ti verrò un giorno a fotografare caro Nureyev, so che sorrideremo insieme a tanti altri. Enrico

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Francesco Borelli
Francesco Borelli 7 Gennaio 2022 - 10:35

Enrico grazie per questa sua bellissima testimonianza!

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