Mi chiamo Martina Di Riccio, ho venticinque anni, sono nata a Lucca e, dopo gli studi liceali, mi sono trasferita in Inghilterra, dove ho conseguito il Diploma internazionale di ballerina professionista.
In seguito, pur continuando a viaggiare all’estero per lavoro, mi sono laureata in Lettere presso un’Università italiana.
Perché mi rivolgo a Voi con la speranza di essere ascoltata?
Perché in questi giorni ho maturato una amara riflessione: la vita è una zuppa e io sono una forchetta. Questa frase sintetizza la mia situazione di artista in un’Italia alle prese con l’emergenza Covid19, ma forse, guardando agli ultimi quattro anni, nei quali ho vissuto nel mio paese dopo diverse esperienze all’estero, la suddetta frase può avere valenza anche in situazioni non emergenziali.
Il mio lavoro è quello di ballerina professionista, diplomata all’estero, con esperienza sul campo maturata in compagnie di danza estere, che ha deciso di provare a investire tempo ed energie fondando una piccola compagnia giovanile a Milano. Compagnia con alcuni spettacoli all’attivo, quasi interamente auto prodotti, il cui ricavato spesso non basta per coprire spese di produzione e salario dei danzatori, nonostante le sale spesso sold out. Al momento attuale solo date perse a partire dal mese di marzo. Probabilmente irrecuperabili in futuro. L’altra mia passione, che coltivo a livello semi-professionale, sperando che diventi presto anch’essa un lavoro, è la recitazione cinematografica. Perciò credetemi quando Vi dico che sono una forchetta che galleggia nel minestrone della vita, perché adesso cercherò di spiegarVi il motivo.
Partiamo dalla classica domanda da primo incontro con uno sconosciuto: “Che lavoro fai?” Ora, se questa viene posta da un cittadino europeo o extra europeo a un danzatore, di fronte alla risposta “ballerino”, la reazione è di pura ammirazione, quasi di estasi, perché “Wow, ho incontrato un artista”. La stessa risposta, se data a un italiano, suscita, nella stragrande maggioranza dei casi, l’irrefrenabile voglia di fare un risolino, storcere il naso, guardare l’altro con sufficienza e continuare la conversazione con “Ho una nipote di 5 anni, anche lei fa la ballerina, è bravissima. Ma, per vivere cosa fai?”. Campanello di allarme numero uno. La seconda domanda che mi è stata posta più volte da coloro i quali hanno accettato che quella della danzatrice sia, di fatto, una professione è la seguente: “Ma perché, invece di mettere su una compagnia tua, con tutte quelle difficoltà, non ti fai assumere da compagnie più grandi?”.
Io questa domanda la giro a Voi dei piani alti, perché sono sicura di non essere l’unica che avrebbe le carte in regola e le qualifiche per entrare in uno dei quattro corpi di ballo sopravvissuti in Italia, ma che, purtroppo, non vi entrerà mai, perché i suddetti enti lirici, quei quattro superstiti ai continui tagli al settore cultura, non possono accogliere le migliaia di ballerini italiani che ogni anno viaggiano in tutto il mondo alla disperata ricerca di lavoro e di fortuna. Pur non rispondendo alla domanda, vorrei ricordare però che in Germania, nazione al centro di vari dibattiti in questi giorni bui, c’è almeno un teatro d’opera e danza attivo in ogni città, che brilla e si riempie grazie anche al talento degli artisti italiani. Campanello d’allarme numero due. L’ultima riflessione vuole soffermarsi sulla definizione che accomuna tutti gli operatori dello spettacolo in generale, tutte le forchette nella zuppa: “non essenziale”. “Chissene frega se i teatri non riaprono, chi ha un lavoro vero deve ricominciare”, “I cinema non sono fondamentali”, “Niente concerti? Vivremo lo stesso”: sono queste le frasi che, da artista, mi hanno colpita di più negli ultimi giorni, quelli della fine della fase uno, e dell’inizio della fase due.
Eppure c’è chi nei settori “non essenziali” ci ha investito un’esistenza, le proprie energie, i propri sogni. Non parlo solo dei performers e degli intrattenitori, ma anche dei tecnici, dei macchinisti, delle maschere, degli operatori, dei truccatori, dei sarti, degli scenografi e la lista si potrebbe estendere.
E non dimentichiamoci degli insegnanti e delle scuole di danza, canto, recitazione, grandi o piccole, da cui i futuri talenti spiccano spesso il volo. Insomma, per chi la pensa come me non sarà difficile capire l’avvilimento che, in questi momenti più che mai silenziosi, pervade un’intera categoria, troppo poco tutelata, di persone invisibili.
Quelli che la pensano diversamente, invece, sono calorosamente invitati a stare sette giorni senza ascoltare musica, senza guardare film, senza visitare i siti internet dei musei, senza alzare la testa -nel tragitto casa lavoro- per ammirare i monumenti storici della città in cui si trovano. Niente libri, neanche una poesia, non si toccano strumenti musicali e assolutamente non si balla, anche se in preda a un raptus di euforia. Casa, lavoro, silenzio e di nuovo casa e lavoro. Io credo che, dopo una settimana del genere, il concetto di cosa è “essenziale” sarà leggermente cambiato. Non serve una riapertura forzata e immediata. Credo che chiunque, nel mio campo, capisca la delicatezza della situazione. Questo è solo un invito a riflettere, per favorire un cambiamento e creare un futuro veramente migliore. L’arte si prende sempre cura di noi, ci culla come bambini in fasce, ci consola nei momenti peggiori e credo che si meriti una grande carezza da parte di tutti. Ascoltateci, considerateci, non lasciateci soli. Perché, almeno fino ad ora, per noi artisti non è andato tutto bene. Papa Francesco continua a ripetere che “nessuno si salva da solo”, allora includeteci nei Vostri piani di rinascita e saremo anche noi dei salvatori e dei salvati. Non più solo dei “sommersi”. Iniziate a rendere più densa la zuppa della vita, governanti, sono convinta che anche le forchette potrebbero tornarvi utili. Vi sarò grata se vorrete prestare attenzione alle mie parole ma, anche se così non fosse, Vi ringrazio ugualmente perché mi avete permesso uno sfogo.
Distinti saluti Martina Di Riccio