Più divento grande (per non dire anziana), e più mi rendo conto di quanto le vite frenetiche che abbiamo scelto di condurre in questa società, così veloce e affamata di futuro, siano inadatte a qualsiasi idea di produzione creativa, almeno secondo le modalità che ho conosciuto finora. Probabilmente in seno alla specie umana sta già sviluppandosi un linguaggio nuovo che tenga il passo con i cambiamenti costanti, la poca voglia di ‘stare’ nelle cose, tutte le fascinazioni facili cui siamo sottoposti ogni giorno e che ci inducono solo a sviluppare desideri e aspettative. Si farà avanti un modo diverso di concepire e fruire l’Arte, che ancora non conosciamo, e che quelli delle vecchie generazioni forse non gradiranno, come spesso accade.
Stiamo a vedere.
Io, però, che sono una inguaribile romantica, rimango attaccata alla vecchia scuola come un naufrago alla ciambella salvagente, legata all’idea della necessità profonda, nella creazione artistica, di nascere da un processo di elaborazione che richieda un tempo metabolico per maturare e ‘cadere’ a terra, proprio come un frutto. Gli impressionisti sono famosi per la rapidità di azione davanti alla tela, alla ricerca spasmodica di catturare l’attimo nella luce, ma quella consapevolezza di sapere esattamente dove andare, la chiarezza cristallina di conoscere il risultato che si voleva ottenere, non è altro che frutto di un tempo indefinito in cui si è osservato, ascoltato, assaporato, sperimentato e infine elaborato un pensiero sufficientemente maturo da ‘cadere’ in quei quadri indimenticabili. Nella mia visione non esiste alcuna creazione che possa saltare questo passaggio, e penso anche che le opere che emergono da un processo che avviene dall’interno, e dall’interiore, sono quelle che colpiscono di più, come spettatori. Quelle che lasciano una lunga eco, che ci accompagna per ore, a volte per i giorni successivi, come se avessero acceso una piccola luce dentro al nostro cuore. Le opere che si nutrono di narcisismo e autoreferenzialità, invece, non hanno la potenza necessaria a risvegliare alcunché né nella mente e neanche nel cuore, limitandosi ad un semplice intrattenimento estetico dei sensi.
Gli artisti del passato offrivano l’intera propria esistenza all’esigenza creativa che li muoveva e li guidava. Alla loro ghianda, come direbbe Hillman. Persone che non hanno concesso a nulla e a nessuno di distrarli dalla propria missione, lavorando così affannosamente, con tale concentrazione e trasporto, come se pensassero di non riuscire a finire in tempo prima di morire. Esiste una lista infinita di simili soggetti tra registi, cineasti, pittori, poeti, scrittori, danzatori, coreografi.
Dedicare tempo alla propria urgenza comunicativa. Senza compromessi.
Lasciare spazio alla propria visione per apparire. In attesa che maturi. Al di là di ogni altra cosa.
Attitudine impensabile oggi, questa, dal momento che nasciamo già con un debito sulle spalle e una società che ha mille progetti su cosa dovremo fare, studiare, amare e consumare. Anche quando sentiamo forte il richiamo verso le nostre urgenze creative, la società, i familiari, le istituzioni, continuano a sviare questa energia, ripetendo che la realizzazione passa altrove, che fare l’artista non è un modo per affermarsi. A meno che, certo, non si tratti di televisione, che infatti non è arte ma intrattenimento.
Ecco allora che, per cercare di tenere aperte più possibilità, in linea con questa tendenza diffusa che io trovo più odiosa del suo stesso nome: multitasking, si studia danza mentre si lavora facendo quello che capita e si frequenta anche l’università. I ragazzi di oggi sono davvero bravi in questo sport estremo di gestire più cose contemporaneamente, in un contesto sempre più competitivo, tra l’altro. Io faccio già fatica a gestirne una soltanto alla volta e non sempre riesco ad ottenere prestazioni ottimali.
Quando la meta è formarsi come professionisti nel mondo della danza, però, secondo me si rende ancora necessaria la scelta di strizzare l’occhio ai vecchi metodi, dedicando un periodo, anche limitato ma sufficiente, solo ed esclusivamente allo studio, poiché i tempi di apprendimento per una pratica come quella della danza sono lenti, vincolati alle necessità del corpo, che ha bisogno di un lungo allenamento per poter fare proprie abilità così complesse. Vedo molti giovani danzatori di talento disperdere la propria formazione inseguendo corsi e seminari sparsi, rinunciando a qualcosa di più completo per lasciare spazio ai mille altri impegni quotidiani, ma questo non fa che diluire i tempi e impedire loro di raggiungere dei risultati qualitativi adeguati alle richieste del mercato del lavoro. Scegliere un progetto formativo di qualità, che sia conforme ai propri obiettivi e al proprio gusto, dedicarsi totalmente a quello e portarlo a termine, alla fine dei conti è un risparmio di tempo, energie e anche di denaro, poiché in conclusione di un progetto formativo di qualità si è pronti per poter fare audizioni ed esperienza. Certo che se in Italia ci fossero università statali per la danza, sono sicura che molti più talenti emergerebbero. La formazione qui è accessibile solo a chi possiede le risorse economiche per farlo, questo bisogna dirlo, ma trovo che comunque stare con i piedi in più scarpe non porti a grandi risultati e rappresenti una perdita di tempo ed occasioni, considerando anche la brevità di una carriera con la danza.