Non dite mai a un danzatore: “Eh ma te lo sei scelto tu questo lavoro, lo sapevi com’era”

di Lia Courrier
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Quando ho cominciato a pensare alla danza non più solo come una passione ma come possibile mestiere, la studiavo già da quasi dieci anni con grande assiduità e costanza. La motivazione non mi è mai mancata e neanche forza di volontà e dedizione, le mie principali carenze infatti riguardano lo strumento principe: il corpo. Un corpo inadatto ma che nel tempo è stato abbastanza duttile e intelligente da adattarsi allo scopo, consentendomi di fare della danza la mia quotidianità. La presenza della danza ha portato nella mia esistenza tante cose positive, ma anche tanto dolore. Fisico innanzitutto, nel tentativo di ‘addomesticare’ quel corpo difficile, e anche dolore dell’anima, un senso profondo di inadeguatezza alle richieste e alle aspettative. Le mie innanzitutto.

Si è trattato di un percorso complesso, dalla forma di matassa, che ho imparato a dipanare con grande pazienza, per trovare la mia dimensione e un luogo in cui stare in questo mondo. Tante sono state le crisi che ho affrontato, con esiti più o meno drammatici, che hanno fatto di me una piccola donna responsabile già all’epoca in cui le mie coetanee pensavano solo agli amici, alle feste e ai ragazzi. Sono sicura che sarete in tanti a riconoscervi in questo racconto.

Tuttavia trovo che scegliere questo mestiere non abbia niente di eroico, si tratta solo di seguire un’intuizione, una calamita troppo potente per riuscire ad opporsi alla sua forza di attrazione. In realtà, come molti dicono, non è un mestiere che si sceglie, ma da cui in qualche modo si viene scelti, proprio per questo non credo che i danzatori siano delle creature particolarmente coraggiose o eroiche, ma anzi, degli inguaribili sognatori, e quindi persino vulnerabili, sotto certi punti di vista. Dei ‘fiori d’acciaio’, come li ho chiamati più volte.

Ogni volta che mi sono trovata davanti ad uno dei miei periodi neri, perché avevo subito un infortunio, non riuscivo a trovare lavoro, mi pagavano poco, non ero soddisfatta della mia identità di danzatrice, non ero coinvolta dallo spettacolo che stavo facendo, non mi sentivo valorizzata dal coreografo o semplicemente perché avrei voluto tanto essere diversa da come sono, non avevo nessuno con cui confrontarmi. Aprirmi con un danzatore sarebbe servito solo a deprimersi ancora di più, dal momento che queste problematiche toccano tutti quelli che appartengono a questo mondo, mentre nel confronto con chi non è parte del settore, la risposta che prima o poi arriva è sempre quella: ‘eh ma ti sei scelta tu di fare questo, lo sapevi com’era’.

Guardate, questa è davvero la risposta più spregevole che si possa dare in questi casi, per almeno due motivi: uno, perché la persona che avete di fronte vi sta raccontando le proprie difficoltà, e anche se il mestiere del danzatore vi sembra così frivolo e inutile alla società, si tratta pur sempre di un lavoro, che richiede grande dedizione e passione, e quella frase sminuisce non solo il mestiere, ma anche la persona stessa e la sua intelligenza. La saccenteria e l’arroganza di quelle parole si rivolgono all’interlocutore come se questo fosse un bambino che non ha ancora capito come gira il mondo. Ma ognuno di noi vede le cose da un punto di vista diverso e non per tutti il concetto di realizzazione personale ha lo stesso significato.

Secondo: lo so perché ci dicono questa frase. Nella società dei dirigenti e della catena di montaggio, una buona parte di popolazione fa un lavoro perché ha bisogno di guadagnarsi (più o meno) onestamente il pane, ma non trova la propria occupazione gratificante. Così chi ha l’ardire di rischiare il tutto per tutto, per poter fare della propria passione un lavoro, va in qualche modo ridimensionato con la serie di piaghe che ci affligge: poco lavoro, difficoltà di allineamento al comune pensiero, povertà. Il concetto squisitamente cattolico della ‘punizione divina’, insomma,  che fece guadagnare alla povera Eva, e a tutte noi venute dopo, i terribili dolori del parto solo per aver ceduto per una volta al piacere della mela. Allora quando uno di noi si lamenta della propria condizione, ecco che ritorna il disco rotto ‘eh ma ti sei scelta tu di fare questo, lo sapevi com’era’.

Certo. Tutti lo sappiamo che non ci si arricchisce con l’arte, a meno che non sei Picasso o Warhol, e non credo che uno cominci a fare danza con l’idea di accumulare ricchezze, però di certo il fatto di aver voluto fare della propria passione un mestiere non giustifica le condizioni lavorative cui siamo sottoposti in Italia, specie negli ultimi anni, lo sfruttamento, il mercato che crolla e i compensi che scendono sempre di più, l’interminabile numero di ore spese per compilare bandi, preparare lezioni, cercare di farti promozione come meglio puoi (perché il tuo lavoro è la danza, non il pubblicitario o il commercialista), stare dietro a fatture, ricevute, documenti e conteggi.

‘Imprenditori di noi stessi’, una frase che mi mette i brividi ogni volta che la sento, ma questo siamo, o ci hanno fatto diventare. Dobbiamo fare tutto da soli senza poterci appoggiare all’aiuto di nessuno, e questa montagna di lavoro è talmente sovrastante che quando poi ci troviamo sulla scena o in sala a dare lezione, spesso siamo così stremati da non riuscire a godere appieno del dono che abbiamo ricevuto, ossia l’opportunità di fare della nostra passione un mestiere. Non la chiamerei fortuna, no, perché per raggiungere la consapevolezza con cui oggi faccio il mio lavoro di insegnante non mi è stato regalato nulla, me lo sono guadagnato con tanto studio e lavoro, come un qualsiasi altro professionista. Quindi, per favore, evitate di dire a un danzatore ‘eh ma ti sei scelto tu di fare questo, lo sapevi com’era’ se volete tenervelo amico.

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