Loredana Furno: la signora della danza torinese si racconta; tra passato e presente

di Francesco Borelli
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Incontrare e discorrere con Loredana Furno è un po’ come sfogliare un libro di storia della danza. Nomi, personaggi, eventi che sono nella memoria di molti di noi affiorano naturalmente tra le parole di questa splendida donna che il tempo non ha cambiato. Artista grande, danzatrice dal temperamento drammatico, imprenditrice di successo. La signora della danza torinese ci porta con sé in uno splendido viaggio tra ricordi, aneddoti, personaggi, per ricordarci infine che tutto è possibile. E di paure non bisogna averne.

Cos’è stato a farle decidere di diventare una ballerina? 

Il caso. La mia mamma era un’appassionata di musica e di balletto. Lavorava all’Utet, la più grande casa editrice del tempo e mi portò a vedere “Scarpette Rosse”, il celebre film, che mi piacque moltissimo. Intanto si avvicinava il Natale e mi domandò cosa desiderassi. Io risposi: “Delle scarpette rosse”. Allora c’era il ciabattino del Teatro Regio di Torino e ci recammo da lui a chiedere di confezionare le famose scarpette. Io, da parte mia, non avevo alcuna idea della danza e non avevo mai pensato di poterla studiare. Fu lui a invitare mia madre a iscrivermi nella scuola del Teatro. E così, cominciai. Avevo nove anni. 

Quindi iniziò a muovere i suoi primi passi nella scuola del Teatro Regio di Torino. 

Scuola che allora, ancora, esisteva ed era gratuita. Era diretta fra l’altro da Grazioso Cecchetti appartenente alla celebre famiglia. Dopo di lui subentrarono il figlio Riccardo e poi Regina Doria. Ricordo le sale, da cui si vedeva la cupola di una grande chiesa. Rimasi in quella scuola per due anni. Poi chiuse. 

Che cosa successe dopo? 

Una sera, sempre mia madre, mi portò a vedere al Teatro Alfieri, i Balletti di Susanna Egri. Erano coreografie moderne nelle quali non mi ritrovavo. Ero in compagnia di Carla Parmeggiani, poi prima donna al Teatro Stabile. Alla fine fu ancora la mia mamma a farmi notare come ciò che avevo appena visto fosse di gran lunga migliore di ciò che stavo facendo. E chiedemmo un’audizione privata a Susanna Egri, affinché mi vedesse. Mi ricordo che l’audizione fu a pagamento. Mi prese nella scuola e rimasi con lei per dodici anni. Lavorai moltissimo anche in televisione. E, intanto, cominciavo a fare carriera anche lontano da lei. 

Poi arrivò il Teatro Alla Scala.

Sì. Ricordo che eravamo Al Teatro Carlo Felice di Genova. Eravamo Gildo Cassani ed io. Così, su due piedi, si decise che l’indomani saremmo andati a fare l’audizione per il celebre teatro. Andammo e ci presero. Riuscii così a emanciparmi dalla Egri. Donna colta, intelligente e in gamba. A lei devo la mia formazione musicale e non solo. Grazie alla Egri conobbi Massimo Mila della quale fui vice all’Unità per cui scrissi per un po’. Ma certamente possessiva con le sue creature. Fu in Scala comunque che acquisì la tecnica. Mi mancava la capacità di unire i passi, le dinamiche necessarie per poter davvero ballare. In Scala mi presero perché ero dotata, ero bellina ma avevo tantissimo da imparare. 

Ci racconta il suo periodo in Scala? 

La direttrice era Luciana Novaro. La mia tecnica non era per niente pulita e ciò che mi mancava era il coordinamento. Sgobbona com’ero, studiavo in continuazione. Alle dieci e quindici c’era la lezione col corpo di ballo e poi la giornata di prove. Consapevole delle mie lacune, chiesi a Esmeè Bulnes, insegnante straordinaria, di poter frequentare anche la lezione delle otto trenta, quella dell’ultimo corso della scuola. E nella pausa dalle prove, tra le quattordici e le sedici facevo lezione di punta con la Gariboldi. Il mio impegno fu premiato. Lavorai in Scala due anni e intanto avevo contratti da prima ballerina col Regio di Torino e facevo tournée in tutta Italia. Poi venni via. La Bulnes si era molto affezionata a me e mi dava molto coraggio. Quando presi la decisione di andar via, lei mi portò dall’allora sovrintendente Ghiringhelli dicendo di non lasciarmi andare. Fu molto carina. 

Da quel momento rimase al Teatro Regio di Torino come prima ballerina per quindici anni. 

Esatto. Ho visto passare cinque o sei sovrintendenti. Non ricordo. Ho cominciato con Negrelli, ai tempi della scuola di danza. Poi Vico, Bruni Tedeschi che era un compositore e altri. Fino al commendatore Erba che ha cambiato la mia vita. 

Posso chiederle perché? 

Allora ero di sinistra. Scrivevo per l’Unità. Le scuole di danza di Collegno, Venaria, Pino Torinese e di Torino le avevo aperte io. Scuole che, da passionaria creavo sul modello russo. Tutte facevano capo al perfezionamento, dove portavo i migliori. Erba diceva che io ero troppo Russa. Lui era un uomo di teatro vecchio stampo. Secondo lui la stella del teatro doveva rimanere la stella, corrispondere a un certo cliché. Comunque a un certo punto mi chiamò in ufficio e mi propose un contratto da stabile per dodici mesi. Tutte non desideravano altro, ma io rifiutai. Volevo fare solo le cose che m’interessavano. Così firmai un contratto solo per tre periodi diversi e intanto lavoravo nella compagnia di Carla Fracci. 

Che cosa accadde a quel punto? 

Erba mi chiamò nuovamente in ufficio e mi disse che gli avevano proposto la gestione del Teatro Nuovo. Presissimo dagli altri teatri di cui si occupava, mi disse che non poteva prendersi anche questo impegno. Avrebbe quindi affidato la gestione alla figlia che si occupava di danza e al marito, ovvero l’architetto Mesturino. La sua idea era di creare un teatro della danza. Tutti i balletti sarebbero stati rappresentati al Nuovo e non più al Regio. Io accettai di occuparmi della direzione artistica. Ma chiesi di avere il corso di perfezionamento, la compagnia e carta bianca su ogni tipo di scelta artistica. In più avemmo il primo contributo statale. Nacquero due società. La prima era la scuola, il corso di perfezionamento, la seconda il collettivo di danza Teatro Nuovo. Era il 1977. 

A un certo punto però le vostre strade si divisero. Che cosa successe? 

Correva il 1982. Ancora ballavo e a livello d’insegnante, non avevo alcuna soddisfazione artistica. Avevo 350 allievi. Non riuscivo a seguirli. Ero interessata più alla qualità che al commerciale e così ci dividemmo consensualmente. Io presi la compagnia, con tutti gli annessi. Compreso il contributo ministeriale. Fui sostituita come prima ballerina da Luciana Savignano e come direttrice della scuola da Marika Besobrasova. 

Qual è stato il momento, nella sua carriera da danzatrice, che si ricorderà per sempre?

Sicuramente quando mi capitò di sostituire la Fracci. Capitò dal mattino alla sera. Eravamo al Petruzzelli di Bari e lo spettacolo era La figlia di Jorio di Hazon. Carla sta sempre bene, ha una salute di ferro. Ma quel giorno stette male. Fui chiamata al mattino della prima da Beppe Menegatti.  Andai in teatro e iniziai a imparare i balletti col coreografo. Intanto si cercava Amedeo Amodio, il partner di Carla. Arrivò alle quindici. Cosi lavorammo sui tre passi a due dello spettacolo e sugli assoli che per la maggior parte improvvisai. Quando al microfono annunciarono la sostituzione della Fracci, sentii un brusio in sala. Ma alla fine del primo atto, ci fu un’ovazione. Fu un grande trionfo. Quel ruolo sembrava costruito su di me. Una donna forte, di temperamento. La Fracci mi lasciò la parte. Disse che lo facevo bene, che era fatto per me. E aveva ragione. 

Ha sempre ballato i ruoli che amava? 

Fino a quando fui in Scala no. Avevo tutto da imparare. Ballavo e guardavo le prove degli altri. Rubavo con gli occhi. Ma da quando ho aperto la compagnia, ho sempre assecondato il mio gusto e i miei desideri. Sceglievo il balletto. Chiamavo i coreografi. Debuttammo con Sogno di una notte di mezz’estate. Poi Silfidi e Bottega Fantastica. Il secondo anno feci Romeo e Giulietta di Biagi, oltre novanta date e sempre un grande trionfo e Shakespeariana con Roberto Fascilla. Un critico francese scrisse a questo proposito: “Loredana Furno si permette di essere al tempo stesso la madre di Amleto, un’ingenua Giulietta e una divertente Titania”. Mi sceglievo i ruoli e i partner. Fu con la mia compagnia che iniziò il sodalizio artistico con Jean Pierre Martal che andò avanti per undici anni. 

Quale è stata secondo lei la sua forza di ballerina? 

Di certo la mia attorialità e forse molta faccia tosta. 

Lei ha attraversato il mondo della danza in tutte le forme possibili. Danzatrice di successo, coreografa, insegnante, direttrice di compagnia, imprenditrice. Come si trova così tanta forza per buttarsi sempre in nuovi progetti? 

Ti faccio l’esempio del Festival di Savona. Nell’estate 2005 feci Giselle alla Fortezza del Priamar, prodotta dall’Opera Giocosa. Ci fu tantissima gente, con code infinite alla biglietteria. Mi dissi: “Il pubblico di Savona vuole vedere la danza. Perché non organizziamo un Festival?” E così è nato “Danza alla Fortezza del Priamar”. Andai a chiedere i soldi e me li diedero. Se c’è qualcosa che mi riconosco, è l’entusiasmo e il fatto che non mi tiro mai indietro. Di fronte a nulla. Ho diretto anche il Festival di Acqui e poi il Festival dei Laghi. Con successo.

Lei pensa di essere riuscita sempre a capire cosa voleva il pubblico? 

Oggi è molto difficile. Una volta eravamo in pochi. C’ero io e pochi altri. Tra cui la Egri. Oggi la proposta si è moltiplicata. 

Mi racconta il suo incontro con Rudolf Nureyev? 

Lo scritturai per Giselle. L’impresario che si occupava della Compagnia di Fracci si occupava anche della mia compagnia. Lo chiamò Pignotti dicendo che voleva fare Giselle per alcune date che Nureyev aveva in Italia. Il direttore d’orchestra, David Coleman era già stato scritturato. Mancavano l’allestimento e la coreografia. Me lo proposero e accettai. Incontrai Nureyev. Lo vidi in aeroporto. Mi fece esattamente queste domande: “Quante sono le Villi? Chi interpreta Hilarion? Chi fa la coreografia? Chi sarà Mirta?”. Diedi tutte le risposte e accettò. 

Lei è una donna forte e di temperamento. Ha mai avuto paura di non farcela? 

No. La paura è un sentimento che non mi appartiene. Mi spaventano la violenza, la stupidità ma non il lavoro. La vita mi ha offerto tante possibilità e io le ho colte. Con coraggio certo, e senza alcun timore. 

Si è mai sentita invidiata? 

Sì, molto. Da tante persone. Ma non ne ho mai sofferto. Io ho sempre creduto nelle mie cose. Non ho mai avuto dubbi. Il resto passa in secondo piano. 

Come definirebbe se stessa Loredana Furno? 

Una gran lavoratrice. Una sgobbona. E poi una creativa. Da molti punti di vista. 

 

L’intervista si è protratta a lungo. E ancora sarebbe durata, se solo il tempo non fosse tiranno. Alla fine di un viaggio ci si sente solitamente ricchi. Di esperienze, persone, avvenimenti. E in alcuni casi più forti. Incontrare la signora Furno è stato arricchente quanto un bellissimo viaggio. Mi son scoperto più forte, più consapevole e meno spaventato. E con tantissima voglia di fare. Ci sono persone, e personaggi, dai quali c’è sempre e solo da imparare.

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