Da piccolo sognava di volare. Di elevarsi al di sopra di tutti. Di sentirsi leggero e potente. Da grande ha imparato a volare. E oggi è li, sospeso in un mondo per pochi, dove la realtà è piccola, le cose lontane, le persone un semplice vociare, attutito, silenzioso. Davide Zongoli a 32 anni è l’esempio di come i sogni, anche quelli più irreali, possano diventare concreti. Forse perché la vita ci mette lo zampino e il destino di tutti noi, in parte, è scritto.
Come ti sei avvicinato alla danza?
È stato tutto per caso. Ero campione di nuoto. Mille anni lontano dal mondo del balletto. Vivevo a Brindisi e un’amica mi ha invitato a provare una lezione, sostenendo che fossi fisicamente dotato e avessi una certa attitudine al movimento. Dopo quella prima lezione è cambiata tutta la mia vita.
Che cosa è accaduto?
Ho iniziato a studiare danza tutti i giorni. Dalle 15 alle 19. Dopo soli pochi mesi il primo contratto con il Festival della valle d’Itria e l’Ivanohe. Poi l’incontro con Andrè De La Roche e la prima tournée della mia vita. All That Jazz, lo spettacolo che portavamo in scena, fu una vera e propria scuola. E Andrè un grande maestro. Oltre che una persona professionale ed estremamente gentile.
Da li è stato un percorso in salita. Prima le borse di studio con Renato Greco e Mauro Astolfi, poi le prima audizioni per la TV.
Esatto. Tra l’altro fortunatissime. Ho lavorato con tutti. Da Gino Landi a Gianni Santucci, da Fabrizio Mainini a Manolo. Ho partecipato a ogni programma televisivo, spesso da solista. E alla televisione si è poi aggiunto il teatro: la Fenice di Venezia, il Comunale di Bologna e anche il Teatro Real di Madrid.
Hai detto di venire dal nuoto agonistico. Qual è secondo te la differenza tra la mentalità di uno sportivo e quella di un danzatore?
Nello sport esiste il lavoro di squadra. Ci si prepara tutti assieme per un risultato comune. Ci si aiuta a vicenda e ci si incoraggia. Nella danza invece si è estremamente individualisti. Un tuo risultato, rispetto a un insuccesso degli amici, per esempio, mette a repentaglio i rapporti. Anche quelli in cui credevi. E questo, del mondo della danza, proprio non mi piace.
Quando è avvenuta la svolta? Quando hai sentito che la danza non ti bastava più e avevi bisogno di cimentarti con altro?
Avevo 25 anni. Dopo anni di iperattività il lavoro cominciava a scarseggiare. Feci un’audizione per la compagnia Kitomb di Angelo Bonelli, che cercava ballerini che facessero un po’ di danza aerea. Non soffrendo di vertigini mi presentai. E fui preso. Da lì scattò qualcosa e iniziai a prendere lezioni presso la scuola romana di circo. Imparai le chiavi principali, ovvero le posizioni e l’uso dei tessuti.
Da questo momento in poi la danza aerea diventa la tua principale attività. Che cosa ti ha convinto a mettere da parte la danza in senso tradizionale e a dedicarti a questa forma d’arte così particolare?
Come spesso accade, è la vita che ti regala le risposte. Mi contattò un’agenzia di Londra che cercava danzatori che sapessero usare anche i tessuti per il prossimo tour di Leona Lewis. Inviai delle mie foto e qualche video. E fui preso. Iniziai una tournée di quattro mesi in tutto il Regno Unito. E lavorando imparai tutto. La coreografa Dreya Webber mi insegnò tantissimo. Dall’uso corretto dei tessuti ai cerchi. Si lavorava a 15 metri di altezza senza imbragatura.
Che cosa si prova lassù?
Un misto tra adrenalina, ansia e potenza. Perché ti rendi conto di trovarti in una condizione privilegiata che soltanto a pochi è concessa. E poi “volando” ho realizzato il mio sogno.
Hai mai avuto paura?
Sì. Il concerto di Leona Lewis cominciava con una caduta di noi ballerini da 15 metri. Prima di iniziare venivamo sollevati verso l’alto e all’inizio dello spettacolo, su un accento della musica, bisognava lasciarsi andare e srotolare il tessuto fino ad arrivare a un metro e mezzo da terra. Per tutte le cento date del concerto è stato l’unico momento in cui ho avuto timore.
Quindi dalla danza ai tessuti. E dai tessuti alla pole dance?
Dopo l’esperienza con Leona Lewis ho iniziato a lavorare tanto all’estero. In Italia sempre meno. Oramai venivo identificato totalmente con la danza aerea: i più dimenticarono che prima di ogni altra cosa ero innanzitutto un ballerino. Detto questo, durante il mio peregrinare conosco Giulia Piolante, una ex-ginnasta che si dedicava alla pole dance. Fu lei a invitarmi a fare una lezione. E, come era accaduto anni prima per la danza, anche nel caso di questa disciplina mi innamorai. Iniziai a studiare senza sosta e arrivai a vincere tutte le gare, compreso un secondo posto ai mondiali.
Con la pole dance sei ritornato allo sport.
Sì, e mi sono sentito di nuovo a casa. Nella pole dance, come in ogni sport, se sei bravo, vinci. È un ambiente totalmente meritocratico. Non contano l’aspetto, i muscoli o il colore dei tuoi occhi. Ciò a differenza di quanto avviene in televisione, per esempio, dove spesso mi son visto passare davanti persone assolutamente immeritevoli.
Nell’ambiente della danza chi sono i coreografi o personaggi con cui ti sei trovato meglio? Chi hai apprezzato maggiormente?
Gino Landi in assoluto. Un maestro. Sempre geniale, sempre al passo coi tempi. Poi Gianni Santucci. Quello che sono oggi in parte lo devo a lui. E poi Garrison, di cui sono stato assistente nel programma “Amici” e Gheorghe Iancu, persona sensibile, dolce e professionale. Infine Lorella Cuccarini: una donna favolosa. Bella, bravissima e professionale.
Che cosa dobbiamo aspettarci da Davide Zongoli per il futuro? Dove ti vedremo “volare”?
Incrociamo le dita. Ci sono mille progetti in ballo che, se andranno in porto, mi vedranno viaggiare da una parte all’altra del globo. Ma non diciamo nulla. Intanto, anche in questo momento di breve pausa continuerò ad allenarmi. La forma fisica è al primo posto. Mai mollare. E crederci sempre.
Finita l’intervista Davide corre in palestra. Cammina con quella determinazione che gli si legge negli occhi quando racconta di sé, quando dice che la gamba deve rimanere a 180 gradi e non a 170. Cammina con la consapevolezza che in fondo, se è riuscito a volare, anche tutto il resto è possibile. D’altronde, chi lo dice che i sogni devono rimanere tali?
Crediti fotografici: Fabrizio Cestari