Fabio Crestale: il senso profondo della danza.

di Francesco Borelli
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Dare voce all’artisticità di Fabio Crestale è impresa difficoltosa e splendida al contempo. Le ore trascorse a parlare con lui sono state un viaggio nel senso più profondo di un lavoro che, fatto con talento misto ad amore, incanta. Danzatore, coreografo, insegnante, Fabio è la summa di mille talenti e intime riflessioni. L’unione reale della fisicità e del pensiero. 

Ti definisci uno spirito libero tanto nella vita quanto nella danza. In che modo ciò influenza e condiziona la tua maniera di essere un artista? 

Io credo che artisti si nasca. Seppure sia vero che tutti noi siamo il frutto di ciò che abbiamo visto, studiato, conosciuto e approfondito, la creatività, tuttavia, l’essere artisti è qualcosa di più profondo che riguarda ciascuno di noi. E soltanto noi. Fare arte significa esprimere appieno se stessi. E per potersi esprimere è necessario essere liberi. Puri. 

Che definizione daresti della tua arte coreografica? 

È un’arte del tutto personale. Come dicevo, è frutto di ciò che sono. Partendo da una sensazione, un quadro, una foto, tutto poi si evolve, scorre in maniera naturale. E insieme ai danzatori in sala prove sviluppo le mie idee di partenza, trasformandole in coreografia. 

Parliamo un po’ di te. Prima di essere un coreografo sei un ballerino. Come hai cominciato? 

Ho iniziato un po’ avanti con gli anni. Ho mosso i primi passi presso la scuola “Forza e Costanza” di Brescia diretta da Nadia Bussien, già prima ballerina del Teatro di Mannheim. Successivamente ho continuato a prendere lezioni in tutto il mondo, dal balletto di Toscana fino all’Alvin Ailey di New York. Credo fortemente che lo studio per un ballerino sia fondamentale, formativo e necessario. Ma ciò che fa la differenza è l’umiltà mista a grande determinazione e personalità. Queste sono le caratteristiche che rendono un danzatore “grande”. 

Qual è secondo te oggi la considerazione che i ragazzi hanno della danza e dell’arte? 

Oggi purtroppo, a causa di una società pigra, l’arte risulta essere un po’ meno brillante di un tempo. I ragazzi sono poco stimolati alla conoscenza e a scoprire cosa sia davvero l’arte e di conseguenza ad amarla. L’arte che per me è assolutamente imperfetta. Non intendo i passi. La coreografia deve essere pulita, l’insieme preciso, la danza deve essere perfetta nella sua visione. Ma non dimentichiamoci che i danzatori sono esseri umani. Non robot. Chi danza ha un suo percorso, incertezze, fragilità. Oggi i ragazzi non hanno, spesso, consapevolezza di ciò. Guardano quanti giri fai, quanto alzi le gambe. Ma l’arte non è solo quello. 

Che cos’è l’arte? 

È un concetto sublime. Un luogo in cui mi rifugio. È espressione, bellezza, un elemento che è in tutti noi. E si può esprimere tanto nell’essere danzatori, dando espressione alla tecnica, quanto nella coreografia. 

In te convivono tre anime differenti. Quella del danzatore, quella dell’insegnante, giacché tu dai stage in tutta Europa, e quella del coreografo. Come si conciliano tra di loro? 

Secondo me tutti e tre gli aspetti si basano su un unico fondamento: la capacità di trasmettere. Da danzatore dai voce alle intenzioni del coreografo attraverso te stesso. Da insegnante devi avere la capacità di far capire non solamente l’esatta esecuzione tecnica di un passo, ma anche il senso che vuoi dare alla coreografia. Da coreografo, come accade nel caso dell’insegnamento, esprimi te stesso attraverso il movimento dei danzatori. Quindi devi trasmettere loro il tuo senso in modo che, facendolo proprio, lo possano poi regalare al pubblico. 

Chi sono le persone che hai incontrato durante il tuo percorso che hanno permesso di trasformarti nell’artista che sei oggi? 

Di certo Nadia Bussien, già nominata prima, e poi Valentina Benedetti, insegnante e coreografa della compagnia “Doppio Movimento”, la quale mi ha regalato una nuova consapevolezza nel modo di concepire la danza e, di conseguenza, la coreografia. Di certo nel corso degli anni molti degli artisti incontrati mi hanno lasciato qualcosa della loro arte, ma Nadia e Valentina costituiscono la base da cui tutto ha preso inizio. 

Da anni hai scelto Parigi come città in cui vivere. Perché? 

È una città elegante, in continuo fermento dal punto di vista artistico e culturale. Non nascondo che i primi due anni sono stati difficilissimi e solitari. Non trovavo lavoro in alcun modo. All’inizio c’era sempre qualcosa che non andava: “Sei troppo alto, troppo tecnico, troppo principe”. Ma non ho mollato. Ho continuato a stringere i denti ed è arrivato “ Al Muro”. 

“Al Muro” è in assoluto la tua prima composizione coreografica? 

Esattamente. “Al Muro” è nato dalla collaborazione con un collega dell’Opéra di Parigi ed è frutto, come dicevo, dei primi anni di vita a Parigi. Delle difficoltà vissute, degli incontri, delle sensazioni felici o meno scaturite dalla conoscenza di nuove persone. Ha debuttato nel 2011 e arriverà anche a Torino presso il Teatro Astra nell’Aprile del 2015. Dall’esperienza de “Al Muro” è nata la mia compagnia “I Funamboli”. A differenza dell’Italia, dove tutto è complicato, in Francia, riconoscendo il tuo merito, favoriscono i giovani talenti e l’iniziativa individuale. 

Perché “I funamboli”? 

Ho pensato agli equilibristi che camminano sul filo. Una sorta di metafora della vita. E la vita, si sa, non è sempre facile. Io credo fortemente che, seppure tra mille difficoltà, si possa sempre arrivare là dove si è deciso di essere. Come gli equilibristi appunto, che arrivano alla fine del filo. 

Torneresti a vivere in Italia? 

Amo molto l’Italia e ci torno spesso per dare stage e a volte per presentare i miei lavori. Ma preferisco la realtà parigina. Nonostante gli inizi difficili, ho trovato la mia dimensione. Esistono possibilità concrete per crescere e lavorare bene. Esistono la meritocrazia e il rispetto per chi fa questo lavoro. Qui in Italia, ahimè, non si può dire la stessa cosa. I nostri ballerini emigrano verso le realtà straniere, i teatri languono, la danza è politicizzata e ha perso le proprie fondamentali connotazioni. L’Italia ha una cultura e una storia, anche nella danza, che non ha eguali. Ma oggi non esiste più un’educazione e un’attenzione in tal senso. Siamo un paese dominato da altri, a volte sconfortanti, valori. 

Tu sei in assoluto un danzatore e un coreografo contemporaneo. Come ti poni nei confronti degli altri stili di danza o le altre forme di spettacolo? Per esempio…il musical? 

Sono assolutamente aperto verso ogni stile e forma di spettacolo. Certo, alcuni li preferisco ad altri. Ma ho molto rispetto per chi fa questo lavoro con attenzione e professionalità. Per esempio, trovo alcuni musical meravigliosi. Lo stile di Bob Fosse è superlativo. 

Se dovessi dare una definizione della danza contemporanea, quale useresti? 

Il mondo della danza contemporanea è davvero vastissimo. Io penso che, a parte i grandissimi nomi del passato, da Mats Ek a Béjart per intenderci, ognuno faccia il proprio. Come ho detto prima, ogni stile è personale. È espressione del singolo coreografo e danzatore. 

Come definiresti te stesso in questa fase della tua vita artistica? E come ti vedi tra dieci anni? Che cosa sarà cambiato di te? 

Adesso mi vedo come un bambino. In una fase di transazione in cui metto me stesso in discussione quotidianamente. In futuro non so. Chissà cosa farò, dove sarò. I bambini crescono, imparano cose nuove, sviluppano le proprie capacità. Magari sarà tutto diverso tra dieci anni. 

 

E la vita si sa è in continua evoluzione. Fabio Crestale rappresenta il cambiamento e la crescita, la ricerca dell’arte e del senso profondo delle cose. Un’anima bella, pulita e piena di sogni. Forse, da artisti così c’è soltanto da imparare.

Crediti fotografici: Andrea di Marino

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