Tre donne, maschere protettive e abiti austeri. Una prima scena di passaggio da un mondo a un altro, da ciò che è manifesto a ciò che invece è celato, dal conosciuto all’inaspettato; le donne, spogliate dai loro abiti, rivelano la loro vera natura diventando parte di questa nuova dimensione.
Un inizio tutt’altro che semplice quello di Dada Tango, spettacolo di Matteo Bittante, in scena negli spazi del Dancehaus lo scorso 21 giugno.
Dadaismo e Tango, arte e non solo arte, danza e non solo danza. Ecco cosa potrebbero avere in comune questi due mondi: non basta un’etichetta per definirne i confini, per delimitare quella intrinseca potenza espressiva che entrambi possiedono.
Ma andiamo con ordine… No immediatamente mi correggo, poiché un ordine non c’è. Dada Tango è fatto di suggestioni, di frammenti, di istantanee senza un’evidente successione logica. Ciò che è dato di sapere allo spettatore è che si trova all’interno del Cabaret Voltaire, dove, storicamente, la genialità contorta Dada è venuta alla luce, che, tuttavia, assume l’aspetto e l’atmosfera di una Milonga. Il contesto appare come l’unico punto fermo all’interno di uno spettacolo dall’andamento sconnesso, quasi fosse un inarrestabile flusso di movimento e intuizione.
A tenere le redini del gioco sono l’aitante proprietario (Matteo Bittante) e il tanguero (Alejandro Angelica) i quali, in diversi momenti, dominano la scena. L’esaltazione della virilità emerge chiaramente nel corso dello spettacolo, come del resto in tutta la storia del tango, ballo estremamente affascinante ma che, agli inizi, era gestito dalla volontà maschile; l’uomo sceglieva la sua dama per tre balli, ed ella non poteva esimersi dall’assecondare quella decisione. Rude e deciso, potente e pervasivo, una presenza forte nello scorrere dello spettacolo, come quando a ballare sono quattro danzatori uomini, una scena in cui quasi non si sente la mancanza di una figura femminile; a mio parere, è uno dei momenti coreografici meglio riusciti dove, nel mezzo di un tutto incomprensibile, si legge invece chiaramente la sapiente armonia che Bittante ha creato tra il tango e il contemporaneo, tra i passi e i respiri del corpo.
Nonostante il rapporto tra uomo e donna sia notevolmente sbilanciato, con una disparità tra le sensazioni positive maschili e le sofferenze femminili, la donna riesce ad emergere, anche solo illuminata da timide e fugaci fiamme che, nel buio, ne accarezzano il corpo. La donna si svela ma è l‘uomo a mantenere il controllo della scena; è lui che accende le luci, è lui che impartisce gli ordini, è lui che pone le domande ed è ancora lui che guida le danze.
Il non-senso dadaista misto all’irruenza imprevedibile del tango, le immagini forti ma non eccessive, le sospensioni sceniche, l’uso destabilizzante delle luci… uno spettacolo senza storia, non un inizio né una fine certi, solo un lascito di corpi che leggeri si smaterializzano.