Nella vita di tutti i giorni, ogni volta che comunichiamo con gli altri, siamo naturalmente portati a guardare il viso di chi abbiamo di fronte cercando il suo sguardo, per cercare di stabilire una connessione più profonda e sincera di quella verbale. Anche la danza è una forma di comunicazione e per questo, quando danziamo sul palcoscenico, le persone sedute in platea sono portate a far rientrare nella loro visuale l’interezza del nostro corpo oppure, come accade nel quotidiano, rivolgeranno la loro attenzione all’intensità del nostro viso e allo sguardo. Un gesto spontaneo, questo, dal momento che è proprio così che abbiamo imparato a sorridere quando eravamo molto piccoli: imitando quella espressione, che nasce da una emozione, sul viso di nostra madre. Attraverso il volto, infatti, siamo in grado di esprimere ciò che proviamo, e allo stesso tempo mostriamo a tutti la nostra maschera, che usiamo per rapportarci con il mondo esterno e connetterci ad esso. Trovo che nello studio della danza classica ci sia poca attenzione su questo aspetto. Certo, si chiede agli allievi di sorridere, di non mordersi le labbra nello sforzo di eseguire un movimento difficile oppure si corregge la posizione della testa, come la tecnica richiede, ma non si investe in questa parte del corpo, nella sua componente emotiva, tutta l’attenzione e la ricerca dettagliata che vengono invece dedicate, ad esempio, alle gambe. L’espressione del viso non è il risultato di un gesto tecnico ma viene da dentro, da ciò che emerge dal cuore o dalle viscere, ma quando osservo i danzatori che si muovono di fronte allo specchio, noto che il loro sguardo si posa quasi sempre sui piedi. Questa focalizzazione è così radicata nell’abitudine che probabilmente, anche quando saranno seduti in platea per assistere alle esibizioni dei colleghi, la loro attenzione sarà bloccata lì come sotto l’effetto di un magnete. Peccato, però che noi danziamo con tutto il corpo, non solo con una sua parte, e lo sguardo ne è una componente fondamentale ai fini della relazione scenica.
Molte volte, per la fatica e la concentrazione, può accadere di perdere il controllo della muscolatura del viso, che si contrae eccessivamente, così lo sguardo diventa fisso, vuoto o scisso dal resto del corpo, senza una vera integrazione tra la direzione degli occhi e il movimento della testa: è uno sguardo introiettato, diretto al controllo dello spazio interno, forse, ma poco estroverso in direzione dello spazio esterno. Nel quotidiano, quando cambiamo la direzione del nostro avanzare, lo facciamo proprio a partire dagli occhi: osserviamo lo spazio e poi lo attraversiamo. La testa ruota docilmente sotto la guida delle pupille mentre occhi, cranio prime vertebre cervicali si comportano come un’unità funzionale, sempre vigile e attiva in ogni nostra azione: mi chiedo per quale motivo, nella danza, dovremmo abbandonare questa efficiente organizzazione. Nell’ultimo anno di lavoro, il viso e lo sguardo sono diventati per me oggetto di una interessante indagine. Quando propongo il lavoro su questo tema, durante le classi di balletto, comincio col rilasciare l’ articolazione temporo-mandibolare, sede di molte tensioni che riguardano viso, colonna vertebrale, lingua e osso ioide. Poi propongo un’ immagine, a me molto cara per la sua efficacia, che mi è stata donata da Eva Karczag ,una meravigliosa insegnante di anatomia esperienziale. Si visualizzano i bulbi oculari come le palline del gelato appoggiate sul cono di cialda, che è l’orbita, con il vertice del cono rivolto in direzione dell’occipite. Il gelato si scioglie e comincia a scivolare rilassandosi e affondando dolcemente all’interno del cono. Questa idea aiuta gli allievi a sentire gli occhi morbidi e liberi di roteare, capaci di osservare il mondo esterno, lasciandolo penetrare attraverso uno sguardo pieno e presente nello spazio. Facciamo esperienza di questa sensazione prima di cominciare la classe per poi utilizzare la libertà delle pupille per dare avvio a tutte le piccole rotazioni e inclinazioni della testa che la tecnica classica richiede, integrando così il movimento degli occhi a quello della testa, e poi la testa al resto del corpo: così lasciamo che gli occhi guidino il movimento. L’utilità di questa sensazione ha molteplici applicazioni: la presenza puntuale e decisa dello sguardo rende la pirouette frizzante e precisa, oppure nell’azione di allungare la colonna verso l’alto, mantenendo un buon allineamento, si possono dirigere le pupille verso l’orizzonte, come se volessero bucare il muro della sala e posarsi su una barchetta molto, molto lontano che galleggia su quella linea evanescente che divide il cielo dal mare. Lo spazio immaginativo che creiamo tra noi e questo orizzonte sarà speculare ad un altro spazio che si aprirà istantaneamente dentro al corpo, e gli occhi diventeranno un formidabile ancoraggio, per esempio, per la tenuta di un equilibrio. Stiamo parlando di un controllo estremamente difficile e sottile, considerando che nel frattempo bisogna anche eseguire i movimenti, ma a mio parere si tratta di una coordinazione fondamentale, che dona un senso drammaturgico alla nostra danza ed una presenza significativa al nostro corpo nello spazio, in virtù di questa coordinazione consapevole dello sguardo nel movimento: qualcuno non aveva forse detto che gli occhi sono lo specchio dell’anima?