Oggi, cento anni fa, nasceva Vittoria Ottolenghi

“Mi piace la danza perché è la cosa che più somiglia all’amore. Almeno in certi casi, eccezionalmente buoni, è una cosa che si fa con tutto il corpo ma anche con tutta l’anima"

di Elio Zingarelli
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Oggi ricorrono i cento anni dalla nascita di Vittoria Ottolenghi. Nacque a Roma l’8 aprile del 1924 e vi morì il 10 dicembre 2012. È stata una scrittrice, giornalista e saggista italiana. Il suo primo incontro con la danza avvenne nel 1954 quando iniziò a lavorare come autrice e redattrice per il settore danza e teatro musicale, all’Enciclopedia dello Spettacolo di Silvio D’Amico. Nel 1956 cominciò la sua attività di critico di danza per «Paese sera», dal 1960 per la Rai ideò, curò e realizzò diversi programmi, tra cui Maratona d’estate, alla quale si deve, in gran parte, la diffusione della cultura della danza in Italia.

All’inizio senza alcuna conoscenza dell’arte coreutica, Vittoria Ottolenghi ne diventò, poi, una delle sostenitrici e divulgatrici più convinta e prolifica. Perché?

“Perché la danza è effimera: quando finisce è finita, rimane nei pensieri e nella memoria della gente. Non si ripone su uno scaffale: per questo non ne ho potuto più fare a meno di questo mondo straordinario”

La Ottolenghi abbracciò questo mondo nella sua interezza, senza dimenticare le sue regioni apparentemente periferiche. Soprattutto negli ultimi anni della sua attività si avvicinò all’hip-hop, guardando con lo stesso rispetto e la stessa curiosità il ballerino di break dance della borgata e il primo ballerino dell’ente lirico. In ogni caso riteneva fosse importante dare spazio ai giovani anche se sconosciuti. Un’attenzione che è indice di grande intelligenza che non a caso l’Ottolenghi considerava la dote più importante di un ballerino insieme alla libertà di esprimersi e di cambiare opinione. Sarà che la libertà, fosse la caratteristica che più di altre distingueva Rudolf Nureyev, suo intimo e fedele amico. Vittoria Ottolenghi vide il giovanissimo danzatore per la prima volta all’associazione Italia-URSS, ove si era recata insieme al coreografo ungherese naturalizzato italiano, Aurelio Milloss, per assistere a un saggio delle principali scuole di danza dell’URSS. Il loro primo incontro avvenne per strada, anni dopo, (la signora, durante un’intervista televisiva, ricordava, con ironia che fu l’unica volta nella sua vita in cui fermò un uomo). Tra i due nacque un rapporto solido e duraturo che sicuramente giovò l’Ottolenghi nel suo approccio e comprensione della danza. La signora ricordava come Nureyev le spiegò non soltanto cosa volesse dire danzare ma soprattutto la consapevolezza di danzare un ruolo come nessun altro al mondo, in maniera singolare, appunto con libertà personale, e la responsabilità che questa scelta implicava.

Pensando all’insegnamento di Diaghilev, Vittoria Ottolenghi definiva la danza un’arte polivalente di cui ne approfondisce lo studio per la sua effimera e anche per questo tanto più affascinante vitalità colta nel suo “passare” rapido e ineffabile ma non per questo indicibile perchè rimane eterna nella mente.

Così come nella nostra è viva la sua presenza elegante e discreta, la sua figura sapientemente ironica che seduta su una poltrona, dietro quella scrivania ormai celebre, non emetteva giudizi, non esprimeva opinioni personali, ma informava il grande pubblico nazionale affinché avesse coscienza delle origini italiane della danza. Vittoria Ottolenghi non dispensava spiegazione esaustive ma elargiva possibilità di comprensione che potevano risanare il rapporto tra l’artista e pubblico. Una relazione che per la signora si configurava come un rapporto d’amore e per cui era solita sostenere:

“Mi piace la danza, come piace alla gente, perché è la cosa che più somiglia all’amore. Almeno in certi casi, eccezionalmente buoni, è una cosa che si fa con tutto il corpo ma anche con tutta l’anima. Non c’è che la danza tra le arti. L’impegno di tutta una persona, sangue, viscere, anima, c’è soltanto nella danza.”

Grazie.

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