Incontro Oriella Dorella un assolato venerdì mattina in quel di Milano. Camminando verso la sua casa mi scorrono in mente tutte le volte in cui, prima bambino, poi danzatore consapevole, ho visto la signora Dorella danzare. Ogni volta un’emozione. La ritrovo seduta davanti a me. Il caffè lo versa nella tazza della sua nonna, quella che riserva alle occasioni speciali. E intanto si racconta. Senza smentire ciò che ho sempre creduto; Oriella è pura passione, e forza. In questa prima, tenera parte, si racconta, e in più di un’occasione, i suoi ricordi teneri e dolci, regalano un brivido e la sensazione che nulla di più bello possa accadere.
Nell’immaginario collettivo Oriella Dorella è una figura leggendaria, eterea; due grandi occhi blu, gambe che parlano, braccia che raccontano. Come si sente lei realmente?
Innanzitutto credo di essere stata una donna molto fortunata. Dio mi ha regalato l’attitudine, il fisico, un orecchio musicale e un’intelligenza applicata.
Cosa intende per “intelligenza applicata”?
L’intelligenza non è un concetto universale. Geni della matematica non sono, magari, in grado di fare la spesa. Io sono nata per ballare. Non avrei potuto fare altro. Vengo da una famiglia contadina e ho trascorso parte della mia infanzia in campagna, tra le mucche, le galline e i porcellini d’India. Ricordo una grandissima aia. In essa mi rifugiavo e indossavo gli abiti di seta delle mie zie e gli zoccoli di legno dello zio Battista che dato l’alto spessore mi consentivano di andare sulle punte. Così agghindata, danzavo. Il mio corpo era nato per questo. La mia intelligenza, fin da bimba, era destinata a essere applicata alla danza. Avevo la luce.
Cosa significa “avevo la luce”?
Io volevo ballare. Non avevo mai visto un balletto né sapevo cosa fosse un teatro. Ma sapevo che volevo fare quello. I miei genitori erano giovanissimi ed erano totalmente estranei a questo mondo. Ma mi hanno assecondato sin da subito e hanno fatto tanti sacrifici.
Quando i suoi genitori la vedevano danzare nell’aia sugli zoccoli di legno, cosa pensavano? Cosa le dicevano?
Sorridevano. Ma credo non pensassero altro che a un gioco. Poi un giorno accadde una cosa. Col mio papà avevamo un rito. Ogni volta che tornava a casa la sera metteva il giornale sotto il braccio. Io gli consegnavo le pantofole e contemporaneamente sfilavo il giornale. Poi mi rifugiavo in bagno. Avevamo un bagno grandissimo con un pavimento nero. Stendevo il giornale sul pavimento e lo leggevo tutto. Poi lo ricomponevo alla bene e meglio e lo riconsegnavo al mio papà. Fu lì che lessi dell’audizione per la scuola di ballo della Scala. Insistetti talmente tanto che i miei genitori alla fine cedettero e mi portarono in Via dei Filodrammatici per l’iscrizione. Era l’ultima sera disponibile.
Un racconto che sembra una favola.
Non avevo neppure i documenti. Il portiere mi vide talmente incaponita che mi permise di portare i documenti nei giorni successivi. Rividi quel portiere tutti gli anni della scuola e poi nei momenti importanti della carriera. Ogni volta che entravo in teatro, si alzava in piedi e mi diceva: “Un po’ è anche merito mio”. E aveva ragione.
Ci racconta la Dorella bambina?
Ero un po’ farfalla e un po’ maschiaccio. Andavo in bicicletta, giocavo a palla, saltavo la corda.
Quando, quella fatidica sera, consegnò i documenti al portiere, era consapevole che stava entrando nel tempio della danza mondiale?
No, ma sapevo che volevo fare la ballerina. Ed ero consapevole che la scuola era di qualità. Inoltre era gratuita. I miei genitori mi hanno amata, mi hanno seguita e appoggiata. Ma non si sarebbero potuti permettere una retta.
Come sono stati gli otto anni di scuola?
Bellissimi. Faticosi e pieni di momenti, a volte, anche difficili. Ma ero talmente determinata e concentrata sull’obiettivo che tutto il resto non contava. Le lezioni di danza, la scuola interna all’accademia, le prove per le opere. E tra un impegno e l’altro si faceva lezione di francese o il compito in classe di matematica. Con le scarpette da punta ai piedi. Abbiamo respirato a pieni polmoni l’odore del teatro. Facevamo anche le scommesse.
Le scommesse?
Noi allieve avevamo a disposizione un grandissimo camerone diviso in base all’età e al corso frequentato. Lì ci ritiravamo nelle pause per studiare. Al centro di esso c’era un grande tavolo. In ogni angolo del teatro c’erano degli altoparlanti da cui erano fatti gli annunci o si sentivano le prove d’orchestra. E facevamo le scommesse. Medie contro magistrali per esempio. L’oggetto della scommessa poteva essere il nome del direttore d’orchestra. Ogni corso esprimeva la propria opinione e poi una di noi andava sul ballatoio sopra al palcoscenico per verificare chi fosse realmente il direttore. L’abbiam fatto decine di volte. Che bei ricordi. Questo significa essere cresciuti col teatro nel sangue.
Crescere, sin da bambine, così totalmente immerse nel teatro è una grande fortuna.
Si è vero. Spesso durante le pause fuggivamo nei palchetti per assistere alle prove. E una volta vidi Fiorella Cova che provava l’apertura del balletto “La Strada”. Vedendo quella prima scena mi emozionai e ricordo che mi dissi “io un giorno sarò al suo posto”. Molte cose nascono per l’ambizione, che se sana è un motore magnifico. Ma per me fu diverso. Io dovevo arrivare su quel palco perché solo in questo modo potevo essere Gelsomina, Giulietta, Aurora. Non era l’ambizione di interpretare un ruolo a muovermi, ma essere quei personaggi. E vivere quelle storie.
Torniamo alla sua carriera. Dopo il diploma in Scala inizia la sua lunga carriera.
Finiti gli otto anni di scuola, feci il concorso ed entrai subito nell’organico del teatro come “fissa”. E percorsi tutti gli step. Prima corpo di ballo, poi solista, poi prima ballerina nel 1977, infine étoile nel 1986. Le racconto un altro grande colpo di fortuna che ebbi. Io ero sempre puntualissima. Non mancavo mai. Una mattina feci tardi per un problema di documenti e non arrivai in tempo alla lezione. Quel giorno il coreografo George Skibin cercava i protagonisti per “Daphnis e Chloé” con Georges Pretre come direttore d’orchestra. Arrivai in Scala di corsa e mi fiondai in camerino. Misi un body color pervinca, tirai su i capelli in maniera non precisissima e avvolsi intorno al capo una fascia dello stesso colore del body. Corsi in sala. Dopo la lezione, il corpo di ballo era già tutto schierato in ordine di categoria o di statura. Nel momento in cui arrivai, il coreografo era girato dalla parte opposta e mi piazzai velocemente al mio posto in una quinta posizione perfetta. Alzò la testa e guardò proprio me. Pensai di essermi giocata tutto.
Invece cosa accadde?
Nel pomeriggio mi chiamò il direttore del ballo e mi chiese se ero io che quella mattina indossavo un body blu e una fascia in testa. Il coreografo mi aveva scelto per il ruolo principale. E non ero ancora prima ballerina. Un ruolo tecnico ed estremamente interpretato. Il passo a due del terzo atto l’ho interpretato per trent’anni in tantissimi gala.
Come si avvicina a un personaggio che deve interpretare sulla scena?
Con l’anima. Rigorosamente in coreografia ovviamente, ma sempre con l’anima. Ho avuto la fortuna, in tutta la mia carriera, di avere grandi ripetitori. E i ripetitori bravi possono fare la vita di una ballerina. Grazie a loro sei Gelsomina, poi Carmen, poi Giulietta. E cambi il tuo modo di porti, di camminare, di respirare. Robert Strainer diceva: “Per quante coroncine tu ti metta in testa, in palcoscenico sei nuda, viene fuori la tua anima”. E aggiungeva: “Senza costume, senza musica nei primi trenta secondi in cui entri in scena, devo capire che personaggio sei”. Aveva ragione. Un cigno incede in maniera diversa da Caterina o da Giulietta. Ed è una cosa bellissima. Significa che l’anima non viene fuori durante lo spettacolo, ma esiste già dietro le quinte.
Lei ha detto: “La danza mi ha permesso di andare a dormire come Giulietta e svegliarmi Gelsomina”. In questa frase, penso, sia racchiuso il senso di tutta la sua arte.
Pur avendo avuto una scuola di ottima tecnica, ritengo che le pirouettes, i salti, siano lo strumento non il fine. Il fine è il ruolo. Ricordo una prova col maestro Carbone. Dovevo fare un padeburè. E lui mi gridava: “Dorella, troppo epica”. Ciò significa che anche il più piccolo gesto ha un senso. La tecnica è uno strumento su cui si dipana tutto il percorso artistico. Oggi, temo, si stia dando molta più importanza allo strumento piuttosto che al fine. Tanta tecnica, poca anima. Tutto si somiglia.
Vede tra le danzatrici di oggi qualcuna che può essere Oriella Dorella?
E’ una domanda che davvero non merito. Ci sono danzatrici meravigliose con talenti straordinari. Il problema non è essere Oriella Dorella. Il problema è incontrare le persone giuste che consentano a un danzatore di tirar fuori il meglio e diventare qualcuno.
Queste persone ci sono?
Non ne vedo tante. Spesso i personaggi che s’interpretano sulla scena non sono approfonditi. E questo non vale solo per i primissimi ruoli. Quando mi capita di assistere a balletti in cui Aurora o Giselle o Mercuzio per esempio, sono trattati con superficialità o con leggerezza, mi dispiace molto. Ed è un peccato. Se un artista riesce, nel corso della propria carriera a interpretare almeno un ruolo per cui essere ricordato, ha raggiunto un obiettivo. Dopo, può anche morire.
Prima mi raccontava che quando vide Gelsomina interpretata da Fiorella Cova, pensò che un giorno lei sarebbe stata quel personaggio. Quando ottenne il ruolo e fu Gelsomina ne “La strada”, come si sentì?
Mi sentì io. In fondo Gelsomina mi somiglia. In me c’era qualcosa di lei. Il circo, la campagna, la solitudine. La sua purezza che in fondo è anche dolore. Non ho mai incontrato Zampanò nella realtà ma ricordo quell’atmosfera di paese, il distacco da una famiglia che ho un po’ perso. Il paragone potrà sembrare azzardato, ma il circo di Gelsomina per me è stata la Scala. Che nel tempo è diventata la mia famiglia, la mia educazione, la mia proiezione di vita. Tutti questi aspetti che sono anche di Gelsomina, io li avevo dentro di me.
Mi racconta un aneddoto de “La strada”?
C’è una scena nel balletto in cui il palco rimane vuoto. Il circo ha lasciato il paese e Zampanò è stato portato via dai gendarmi. Gelsomina si guarda in giro e pensa che lì non c’è più nessuno. E’ rimasta sola. Cammina a testa bassa recandosi in proscenio sulla sinistra. La musica, struggente, entra e dall’altra parte del palcoscenico in diagonale di spalle torna Zampanò. Entrambi, nello stesso momento, si girano, si guardano e la vita di Gelsomina ricomincia. Io chiesi a Mario Pistoni, coreografo e interprete di Zampanò, su quale conteggio della musica mi sarei dovuta girare per farlo in contemporanea con lui. Mi disse: “Girati quando mi senti”. Non abbiamo mai sbagliato.
Due ore sono tante e una sola intervista non può bastare a raccontare una vita così colma di bellezza e sensazioni. La signora Dorella, a mio avviso, ha un grande dono; l’intensità della scena e dei personaggi che hanno vissuto sul palco grazie a lei, rivive in ogni singola parola e nel modo in cui racconta una carriera unica e straordinaria. D’altronde qual è il fine ultimo della vita di un artista, se non regalare un’emozione?