Pablo Girolami: “Non mi basta una shakerata di mano, bisogna normalizzare l’affetto e l’amore che si possono trasmettere attraverso un tocco.”

di Elio Zingarelli
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Una sembianza primitiva, quasi primaria, si impone senza denotare alcuna superiorità nei confronti di qualcuno o di qualcosa. É l’immagine al computer nel riquadro ristretto di una video call con Google Meet di Pablo Girolami, nato a Neuchâtel (Svizzera) ma con origini Italo-spagnole. Studia presso la Tanz Akademie Zürich dove si diploma nel 2014. Comincia la sua carriera professionale come ballerino a Wiesbaden/Darmstadt con l’Hessisches Staatsballett, e danza nei lavori di Wayne McGregor, Marcos Morau. Nel 2019 fonda IVONA mentre è impegnato nell’attività coreografica anche per altre compagnie e scuole come Jerusalem Dance theater, Nuovo Balletto di Toscana, Egri Bianco Danza, Equilibrio Dinamico, The Lab Collective, TanzWerk101 Zürich e ChoreoLab – Made in Ulm. Lo muove un legame indissolubile con la terra, con la “t” che è maiuscola e minuscola allo stesso tempo: ovvero, il suo paese d’origine, ove recentemente ha tentato una sfida culturale, e la natura del nostro pianeta. Quasi un’urgenza che lo obbliga a una relazione con tutto ciò che è vivente e quindi a un’interdipendenza che non può esimersi dall’esperienza della tattilità. Nella sua attività artistica istintività e condizionamento si affrontano e si affiancano producendo una dimensione che momentaneamente appare alterata ma che è permanentemente esistenziale, contraddistinta da un brancolamento disorientante che però può accadere solo attraverso il movimento.

Hai saputo fin da subito che la tua era una vocazione di coreografo più che di danzatore?

Si! Quando ho incontrato la danza sapevo che c’era qualcosa di più del lavoro d’interprete ma non sapevo cosa fosse. All’inizio pensavo all’insegnamento perché vedevo la mia insegnante. Poi, avendo avuto la possibilità di lavorare con diversi coreografi ho capito che questa componente creativa mi mancava come interprete anche se ho sempre fatto parte della creazione apportando il mio singolare contributo. Comunque, mi mancava la libertà di esprimere attraverso il movimento idee, concetti e visione che mi sembravano urgenti.

In passato hai lasciato una compagnia per intraprendere l’attività di coreografo freelance e direttore artistico di IVONA: quanto la precarietà e la curiosità hanno determinato le tue scelte e condizionano tutt’oggi il tuo stato d’animo?

All’inizio c’era soltanto curiosità, voglia di mangiare, divorare, intraprendere il percorso dell’indipendenza e della coreografia, perché non avevo la minima idea della possibile precarietà di ciò che stavo iniziando. Poi, fin da subito ho compreso la difficoltà di questo mestiere per la mancanza, spesso, di uno stipendio fisso a fine mese e ciò mi ha certamente condizionato in termini di riadattamento dei miei sogni. I quindici danzatori diventano dodici, poi sette, forse cinque e nella realtà un duetto, e la scenografia iniziale si riduce solamente a un tavolo sul palcoscenico. La precarietà mi ha costretto a rivalutare le mie possibilità economiche, quanto posso investire nelle mie produzioni. Ho usufruito di alcuni finanziamenti che non mi hanno consentito, comunque, di realizzare quello che volevo e di gestire tutte le difficoltà. Pertanto, ci sono dei sacrifici artistici a livello di quantità più che di qualità ma la curiosità continua a nutrire tutto il mio lavoro.

Lavori spesso con danzatori di nazionalità differente (tedesca, portoghese, spagnola). Tenendo conto della forte mobilitazione che spesso interessa gli artisti di oggi, si tratta di pura casualità o ci sono ragioni precise?

No, non è una casualità. Il rapporto con i danzatori e con le danzatrici è molto intimo e richiede anche un’affinità umana per lavorare con una certa densità e intimità nello studio e sul palcoscenico. Poi devo dire che mi piace un gruppo eterogeneo a livello di nazionalità. Adesso abbiamo anche artisti provenienti dalla Polonia, Serbia, Francia. Credo che a livello umano sia molto interessante condividere storie e ritrovarsi con lo stesso goal pur avendo trascorsi differenti. Lo considero una forza all’interno del collettivo.

Per te è fondamentale lavorare sempre con lo stesso gruppo di danzatori?

Assolutamente no. Per ogni produzione abbiamo una costellazione diversa di danzatori e danzatrici sia per motivi pratici, perché lavorando con artisti freelance c’è un’incompatibilità di date, e poi, soprattutto,  per un livello di stimolazione che, a mio avviso, non ci sarebbe in una compagnia stabile. Preferisco un gruppo dinamico che si siede a tavolo per gestire il piano relazionale oltre che quello artistico: un po’ come un esperimento sociale che a me piace molto.

Cosa succede, allora, quando crei per altre compagnie?

Ogni volta che ho lavorato con un’altra compagnia ho sempre scelto il mio cast, ho fatto un’audizione (odio questo termine) per scegliere gli artisti del gruppo. É chiaro che come coreografo ospite tutta l’attività è maggiormente improntata sulla creazione e meno sull’esperienza del collettivo. Con gli artisti di IVONA, invece, cuciniamo e mangiamo insieme, c’è un’idea di comunità e una condivisione degli di spazi che va oltre al lavoro. Con i danzatori che conoscono a fondo il mio linguaggio c’è una maggior facilità nell’andare subito in profondità senza passare per un’iniziale fase di apprendimento.

Hai usufruito di numerose residenze, occasione di gestazione di alcune delle tue opere di danza. Cosa puoi dirci a tal riguardo: ritieni siano delle utili opportunità?

Sicuramente le residenze sono state, e sono tuttora, delle possibilità che sfruttiamo per ricercare e creare insieme, essendo una compagnia che non ha una sede fisica. É fondamentale individuare istituzioni, teatri e festival che offrano questo tipo d’esperienza. Ma dall’altro lato una residenza senza sostegno è unicamente uno spazio che per la ricerca del singolo può essere sufficiente, ma avendo io lavorato sempre con altri artisti ho riscontrato la necessità di offrire delle condizioni lavorative ed economiche corrette e adeguate. La residenza, a mio avviso, deve prevedere anche un sostegno economico per lavorare senza sfruttamento, diciamolo chiaramente. La residenza va bene ma la coproduzione sarebbe meglio.

Nei tuoi lavori, spesso, è preponderante un gruppo, o anche un duo ma propedeutico a una comunità. Quali sono le relazioni delle tue coreografie con la nozione di comunità?

Come ho detto prima, il concetto di comunità è molto presente nel lavoro di IVONA, credo sia quasi inscindibile. Come umani, forse, abbiamo il talento della cooperazione e come dice Yuval Noah Harari l’umanità esiste perchè crediamo a delle storie, che sia quella di uno stato o di una religione, allo stesso modo c’è un gruppo che crede alla storia di IVONA, alla sua reale esistenza. Procediamo tutti insieme con lo stesso credo: questo può muovere montagne. Anche se il lavoro non tratta direttamente della comunità c’è sempre una sensazione comunitaria.

Ti rifai spesso agli animali sempre come esempio di convivenza organizzata e riuscita. Un interesse che è già stato di uomini di teatro e di danza agli inizi del novecento. C’è qualcuno che ti ha condizionato maggiormente?

A livello artistico no. Per me veramente importante è l’amore per la natura. Quando ero piccolo volevo diventare zoologo poi avvicinandomi alla danza ho trovato un collegamento tra un settore scientifico e un altro artistico e ora sto indagando il nesso tra queste due mie passioni. Quando non danzo sono immerso nella natura per osservare i piccoli insetti piuttosto che le piante perché è davvero fonte d’ispirazione. L’ultima mia creazione, Selective breeding, il cui debutto sarà il 18 ottobre a Gorizia nell’ambito del Visavì Gorizia Dance Festival, indaga la mania dell’uomo di modificare tutto ciò che lo circonda, animali e piante, ad eccezione di se stesso, evidentemente per la presunzione di considerarsi perfetto o forse, più realmente, per arroganza e ipocrisia. Invece, sono convinto che la natura abbia una sua potenzialità performativa assai accentuata che bisognerebbe preservare. Il duetto Manbuhsa si ispira a un corteggiamento animale; non c’è altro di più performativo di un pavone che fa la corte alla femmina. Questa è arte, forse loro non ne sono consapevoli, però come si dice, l’arte succede negli occhi di chi guarda.

Da quali altri prodotti artistici trai ispirazione?

La musica che è parte integrante degli spettacoli. I suoni sono elementi che mi muovono continuamente a livello dell’emozione fisica. Parlo spesso dell’intelligenza del corpo, dei muscoli, e qualunque tipo di musica, dalla classica all’elettronica, mi fa viaggiare attraverso il corpo. Cerco di coinvolgere sempre gli altri in questo mio viaggio.

Allora, come individui i brani musicali?

Ci sono tre concetti fondamentali: mood, ritmo e tempo, e viaggio appunto. A volte scelgo prima la musica altre soltanto dopo l’inizio della fase creativa ma il mood, l’ambiente sonoro è fondamentale. Poi c’è il ritmo che è uno dei frame che utilizzo per dare delle indicazioni ai danzatori ma anche per creare un involucro, quasi una gabbia. Di base c’è una frase musicale di movimento ma ogni esecutore è libero di interpretarla attraverso il proprio approccio sulla base di una sincronia, però, stabilita dalla musica.

I costumi di scena sono molto essenziali e lasciano scoperta gran parte del corpo, sia dei danzatori che delle danzatrici, che sembrano incorporare energie maschili e femminili in parte desessualizzandole. É così?

Si, mi piace il corpo, è bello e quindi perchè nasconderlo. Ci sono già tante informazioni a livello di linguaggio coreografico che il costume rimane qualcosa di essenziale. Poi il maschile e il femminile sono abbastanza irrilevanti nella mia creazione.

Hai affermato che la danza è ritmo e seduzione che può voler dire anche azione diretta a indurre al male mediante allettamenti. Riconosci alla danza una tale capacità, ovvero di sortire un effetto così intenso nei fruitori?

Credo che la danza debba indurre un po’ al male, ovvero stimolare un senso rivoluzionario attraverso i nostri corpi. Siamo creature del male. Facciamoci del bene attraverso il male!

Invece quanto la valutazione dell’aspettativa del pubblico influisce nella libertà del processo creativo?

Tendiamo ad essere molto egoisti. A fine spettacolo il pubblico ci domanda come riusciamo a ricordare tanti passi. Purtroppo l’esperienza che abbiamo con gli spettatori risente del virtuosismo e della tecnica di quello che facciamo. A livello concettuale e artistico sembra un po’ difficile la conversazione con i fruitori. Credo che la specie umana abbia un problema con il sentire e con il comprendere. Forse, sarebbe necessario lasciarsi andare a un’attitudine quasi infantile di farci da soli delle favole, di immaginare, ma oggi un over-consumismo ci impedisce di farlo.

Si è appena conclusa la prima edizione del Fagagna dance festival, nato per tua volontà. Puoi dirci di più di questa nuova esperienza?

Dopo la giornata inaugurale a marzo, c’è stato un lungo weekend a luglio con un’ottima partecipazione. È stata una sfida portare la danza contemporanea in un piccolo borgo di cinquemila abitanti. Tanti sono stati i feedback e le persone che hanno goduto di quest’arte per la prima volta. Abbiamo coinvolto anche i giovani danzatori offrendo una serie di laboratori oltre a uno specificamente pensato per persone con disabilità che si è tenuto presso un centro qui a Fagagna. Per me era importante mettermi in gioco ma anche offrire un momento di condivisione ed espressione attraverso il movimento che è, in fondo l’unico elemento di condivisione tra gli esseri umani. Credo che questa pratica del movimento sia salvifica per il singolo individuo ma anche per la nostra comunità. Ora è il momento di valutazioni, di individuazione di nuove strategie comunicative e di ciò che può essere più efficiente in termini di approccio.

C’è qualcosa che ti manca e di cui avverti la necessità? Credi che la danza possa sopperire a questa mancanza?

La sensibilità del pubblico, ecco. Intendo dire il tocco, questo senso che noi usiamo molto poco ma che secondo me deve essere rivalutato per un buon proposito nonostante lo si consideri oggi con una certa diffidenza derivata da una ragione, o meglio, da un obbligo consensuale. Non mi basta una shakerata di mano, bisogna normalizzare l’affetto e l’amore che si possono trasmettere attraverso un tocco. Ritorniamo alla seduzione, mi vengono in mente tante interrogazioni e suggestioni. Credo che nella nostra danza il tocco sia una questione essenziale che nella vita quotidiana manca al giorno d’oggi.

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