Pina Bausch: l’importanza dell’ascolto e dell’osservazione

di Elio Zingarelli
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Invasioni tattili e carezze, alienabilità e incomunicabilità, incomprensione e una disperata ricerca di una conciliazione del conflitto dei sessi sono i motivi che pervadono tutta l’opera di Pina Bausch, la protagonista più autorevole del Tanztheater nata in questo giorno del 1940.

Nome d’arte di Philippine Bausch, la danzatrice, coreografa e regista tedesca si forma presso la Folkwangschule di Essen, sotto la guida di Kurt Jooss. Con una borsa di studio si perfeziona negli Stati Uniti alla Juillard School e lavora con Antony Tudor, Paul Taylor, Louis Horst. Torna in Germania nel 1961 e collabora con il Folkwang Ballet come danzatrice e coreografa, assumendone la direzione nel 1968. Nel 1973-74 viene chiamata a Wuppertal e inizia a dirigere la compagnia di ballo del teatro pubblico della città dando vita al Wuppertal Tanztheater.

Il timore del carattere menzognero della danza in quanto linguaggio artistico che, come nessun altro, rappresenta il mondo della bellezza e dell’apparenza, porta la coreografa a rinunciare sempre più ad una comunicazione puramente ballettistica ma non alla danza in linea di principio. Anche se dissacrata o distorta  la danza ingloba tutto lo spettacolo ove “tutto rivela un’indubbia matrice coreografica.” Ma per la Bausch le grammatiche coreutiche ereditate dal passato non sono sufficienti ad accogliere tutto quello che ha provocato il dibattito sul Vietnam, le analisi sociologiche della scuola di Francoforte e la critica sociale.

Allora “qual è il motivo per cui danziamo?” – si chiede la Bausch –  “La direzione verso cui si muove oggi e si è mosso negli ultimi anni il balletto è molto pericolosa. Tutto è routine, e nessuno sa più perché si fanno certi movimenti. È rimasta solo una specie di strana vanità che si sviluppa sempre più a spese del contatto umano. E io penso che noi dovremmo riavvicinarci l’uno all’altro.”

L’urgenza e l’insistenza di un interrogativo che oggi interroga e scuote sempre meno, la necessità di un pensiero che manifesta il bisogno attuale di riavvicinamento rivelano una capacità di silenzio che maggiormente colpisce chi scrive. Una predisposizione al silenzio che però si configura come un’esercizio e poi un atteggiamento di ascolto e di visualizzazione di ciò che i danzatori propongono riflettendo sui temi da lei stessa imposti. È questa postura che consente alla coreografa di definire grandi affreschi corali in cui “le situazioni presentate in scena traggono il loro potere comunicativo da una meditazione su affetti comuni a tutti, in ogni latitudine.”

Una fascinazione e un’ossessione per il quotidiano per cui dalla fine degli anni Ottanta, la Bausch inizia a creare i suoi lavori a contatto con il tessuto urbano e sociale di diverse città. La coreografa ci restituisce la realtà cittadina dove elementi materiali e comportamentali del quotidiano si fondono con altri allusivi e surreali. Grandi affreschi corali che colgono i rumori e i suoni, le angosce e le ossessioni, le aspettative e gli scontri, i rapporti e le emozioni, l’energie non soltanto del proprio ensemble di danzatori ma dell’umanità intera. Possiamo domandarci come la coreografa riesca in questo intendo di ampia veduta.

“Guardo. Forse è questo.” – risponderebbe la Bausch – “Ho solo sempre guardato gli uomini. Ho solo osservato i rapporti umani e cercato di comprenderli, di parlarne. Questo è ciò di cui mi interesso. Non conosco niente di più importante […] La mia non è saggezza. Poi sembra che io dica, stabilisca e sappia tutto. Ma questo non è certo vero. Io stessa sono alla ricerca – e vago come gli altri.”

È un vagare alla ricerca della risposta a una domanda di senso che si riaffaccia prepotentemente nell’arte dei tempi nuovi, forse, per sopperire all’assenza di una presenza che per molti significa anche certezza di un futuro migliore del presente. La Bausch propone un modello comunitario più o meno palese e tangibile, perché fatto da un gruppo che cerca di amministrare e condurre collettivamente il suo tempo e la propria vita.

La ricerca di un’autenticità per non essere una moltitudine costretta ma aspirare a diventare una reale comunità è confacente al bisogno intrinseco all’uomo, in quanto essere sociale, di instaurare legami con i suoi simili affinchè gli altri esterni al gruppo possano avvertire che le cose trattate sono importanti anche per loro.

Si tratta di un tentativo che la Bausch percorre restituendo al corpo un’inedita loquacità esistenziale: ovvero, la facoltà di indagare i paesaggi più profondi e oscuri dell’essere attraverso ore di lavoro di scavo psicologico e il superamento di certi limiti liberando la danza da ogni tipo di costrizione per ricondurla ai suoi valori interiori e universali esprimibili con il corpo. La Bausch ci ha reso liberi perché dotati di corpi liberati, forse, anche dalla danza, ma pregni della sua disciplina per “sentire, esplorare, presentare ricerche e scoperte che riguardano [tutti] gli esseri umani. Da soli non saremmo niente.”

Pina Bausch © Tanztheater Wuppertal

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