L’argomento di oggi nasce da una riflessione scambiata con un giovane danzatore che ho avuto il privilegio di avere tra i miei allievi, prima che lo studio lo portasse oltre confine. Credo sia una questione cruciale per tutti coloro che si approcciano ad un mestiere che si trova nel pieno di una profonda trasformazione, forse meno eclatante di altre vissute in passato, ma altrettanto evidente: qual è il ruolo di quella che finora abbiamo chiamato ‘tecnica’ per la qualità di un danzatore? Dove si trova il confine oltre il quale la tecnica coreutica non è più un supporto alla consapevolezza del corpo, ma diventa una gabbia nella quale ci si può anche sentire in trappola?
Negli ultimi trent’anni il mondo si è trasformato, la società e la velocità con cui questa si muove sono totalmente differenti ed è ovvio che anche l’espressività del corpo, attraverso l’arte del movimento, si sia adeguata a questo, per divenire cronaca del proprio tempo. Flessibilità e resilienza, due concetti legati a vari ambiti dell’esistenza, dall’ingegneria alla psicanalisi, diventano abilità fondamentali anche nella danza di oggi, i corpi vengono spinti fino al limite e i danzatori sono chiamati a trovare nuove strade per adattarsi alle richieste, in azioni che fino a qualche anno fa avremmo persino stentato a chiamare danza. Ci si abbandona al movimento, lanciandosi nella dinamica con la libertà di un uccello, la rapidità di un felino e la sinuosità di un serpente. Percepisco un grande bisogno di tornare all’origine della specie, nella danza odierna, un desiderio di ritrovare la propria natura di animali, di ristabilire un contatto con il proprio sé istintivo, senza troppi concettualismi a titillare l’emisfero sinistro del cervello. La danza che ne risulta è selvaggia, spesso lontana da qualsiasi codice, regola, tecnica, estetica, etichetta, classificazione riconoscibile. Si cerca un movimento spontaneo, che nasce dalla pancia e che si nutre di onestà, sangue e materia.
Il danzatore si pone come un bambino appena nato che sperimenta con il proprio strumento, orientandosi verso gli schemi motori primari, quelli dell’intelligenza intrinseca del corpo, secondo un processo creativo che mira più a togliere che ad aggiungere. Oltre alla libertà del corpo, quindi, che deve essere atleticamente pronto a rispondere a tutto questo, è necessaria anche una grande libertà della mente, che non dovrebbe essere condizionata da idee preconcette su cosa è bello o brutto, su cosa è danza o non lo è, su cosa è possibile e su ciò che invece sembra non esserlo. Per anni abbiamo considerato il balletto come la base per qualsiasi altra espressione coreutica, con tutti i condizionamenti che questo ha portato con sé in termini di gusto critico, immaginario e lavoro sul corpo, ma adesso la danza contemporanea si sta emancipando da questo assunto, concedendosi la possibilità di rivendicare un’origine che non sia vincolata ad un codice, ma all’istinto che ogni essere umano possiede per il movimento, alla fisiologia e alla biodinamica del corpo.
Non è semplice, per chi appartiene alla mia generazione e assiste a questa affascinante trasformazione, stare al passo con la rivoluzione. Oggi guardo ai più prestigiosi centri di formazione europei e vedo una popolazione meravigliosamente disomogenea, di persone che provengono dalle pratiche corporee più disparate: chi dalle arti marziali, chi dalla capoeira, chi dalle varie espressioni della street dance. Si danza anche senza un pregresso bagaglio tecnico coreutico, ma paradossalmente proprio per queste persone, da un certo punto di vista, potrebbe essere più facile rapportarsi al linguaggio contemporaneo, poiché chi proviene da questo tipo di discipline possiede una buona prestanza atletica e altre qualità che sono sinergiche con la richiesta della danza di ricerca, come radicamento, resistenza, focalizzazione della mente, ma senza alcuna sovrastruttura motoria o mentale che potrebbe provenire da una esperienza pregressa con la tecnica coreutica. Ci si è molto avvicinati al suolo, ad esempio, attraverso un utilizzo indifferenziato di arti superiori e inferiori, anche per questo motivo chi ha alle spalle tanti anni di balletto si ritrova a parlare un linguaggio più ‘verticale’ e meno elastico nei confronti del cambio di livello, non solo perché possiede schemi di movimento che rendono difficoltoso, almeno ad un primo approccio, immergersi e risalire dal pavimento, ma anche perché l’immaginario sul movimento non ne include la possibilità.
Chi si approccia oggi alla danza contemporanea dopo aver accumulato un bagaglio tecnico imponente, quindi, deve essere disposto a lasciarsi destrutturare, lasciar andare gli schemi conosciuti, sciogliere tutta una serie di memorie costruite nel tempo, per ritrovare l’accesso a quegli strumenti innati di movimento che il corpo possiede, per tornare all’origine, ad un corpo puro e vuoto. Si tratta di un processo intenso, costellato da difficoltà e resistenze, ma che consentirà poi alla tecnica di ritrovare un nuovo posto, un importante valore aggiunto per la qualità del danzatore e non più un pesante fardello da gestire. Questa nuova tecnica, ritrovata, ‘liberata’ dal quel ruolo tradizionale che gli è stato imposto e che oggi comincia a diventare anacronistico, consentirà al danzatore anche una nuova piacevolezza nell’esecuzione dei movimenti codificati più famosi del mondo. La relazione con la forma, e con il concetto stesso di bellezza del movimento, si evolverà e non sarà più vincolata a ciò che la tecnica impone, sentendosi liberi di vivere quelle forme nella libertà espressiva del proprio corpo, pur restando coerenti con quel linguaggio.