Quanto ci manchi Rudy

di Francesco Borelli
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Esistono figure mitologiche nel mondo della danza, personaggi che attraverso il proprio indiscutibile talento e carisma, hanno letteralmente scritto la storia del balletto mondiale. È vero anche però, che in alcuni casi, parlare di talento diventa riduttivo: Rudolf Nureyev non era solo, attitudine, dedizione, capacità. Rudy era la danza, l’essenza stessa della bellezza sempiterna che regala meraviglia e stupore a chi ha avuto la fortuna di goderne dal vivo.

Ahimè, non ho avuto questo privilegio. Spesso mi dico che avrei desiderato nascere qualche anno prima per cogliere quella magia che lui e solo lui era in grado di profondere a ogni interpretazione, quella scintilla divina che coniugava perfettamente tecnica e sentimento, virtuosismo e anima. Certo, è vero, la danza è cambiata, le gambe si sono alzate, le linee sono più lunghe, i fisici sono diversi e le dinamiche più armoniche. Ma siamo figli dei nostri tempi e spesso questo “piccolo” dettaglio è trascurato dando vita a considerazioni superficiali e, a tratti, stupide.

Oggi più che mai, mi sento di dire che nel bel mezzo di interpretazioni tecnicamente ineccepibili, ma senza anima, in cui il senso stesso dell’arte è secondario rispetto a una ricerca estetica francamente eccessiva, la mancanza di artisti così immensi si sente, e pesa.

Rudy nacque il 17 marzo del 1938 in un vagone della Transiberiana che viaggiava verso Vladivostock, e trascorse la sua infanzia a Ufa, dove la famiglia si trasferì. Un’infanzia difficile, colma di povertà, tristezze e solitudine. A diciassette anni, con grande ritardo rispetto ai suoi colleghi, entrò all’Accademia Vaganova di San Pietroburgo e cominciò a scrivere la sua leggenda.

In pochi anni fu ammesso nella compagnia del Teatro Kirov di San Pietroburgo, danzando sempre in ruoli da protagonista insieme a danzatrici famosissime quali Natalia Dudinskaya, Irina Kolpakova e Alla Sizova. La sua carriera prese il volo e ciò gli permise di esibirsi anche al di fuori dei confini russi, privilegio raramente concesso all’epoca, ma che serviva al Partito per dimostrare all’occidente le virtù del comunismo che riusciva a sfornare così grandi talenti nella cultura e nell’arte.

Nel 1961 la sua vita cambiò. Chiamato a sostituire il collega Konstantin Sergeyev ne “La Bella addormentata” ottenne un successo clamoroso e il 16 giugno di quell’anno, mentre si trovava all’aeroporto parigino di Le Bourget, defezionò, chiedendo asilo politico in Francia.

Questa fuga in Occidente gli valse la condanna di alto tradimento il che lo costrinse a vivere da esule per molti anni, lontano dalla patria e dagli affetti più cari, ma allo stesso tempo, da quel momento in poi, Rudy divenne un vero e proprio mito in Occidente, e fu libero di decidere dove e con chi ballare, grazie alle sue doti eccezionali che fecero di lui un vero e proprio mito della danza. I teatri di tutto il mondo se lo contendevano: dopo Parigi, fu la volta del Balletto Reale Danese, dove danzò balletti del repertorio di Bournonville, poi fu la volta degli Stati Uniti e poi di Londra, alla Royal Ballet, dove divenne “principal guest” e dove iniziò il grande sodalizio artistico e personale con Margot Fonteyn che durò tutta la vita, anche dopo il ritiro dalle scene della grande ballerina inglese.

Danzò i più grandi ruoli del repertorio classico e moderno, donò al danzatore uomo un ruolo di primo piano nel balletto al pari delle ballerine, ispirò i più grandi coreografi del 900 e travolse il mondo con i suoi amori, le sue intemperanze, il suo carattere impulsivo e litigioso, la sua vita privata da copertina. Nasceva con Nureyev il mito pop del ballerino, divenendo la danza, insieme con lui, protagonista sui giornali quasi al pari della musica e del cinema.

Fu grande danzatore ma anche coreografo rimontando, secondo il suo estro, balletti come “Lago dei cigni”, “Raymonda”, “La bella addormentata”, “Bayadere”, “Cenerentola”, “Don Chisciotte”. Ricevette premi e onorificenze, fu Direttore del corpo di ballo dell’Opera di Parigi fino al 1987, e in quello stesso anno, grazie a una concessione speciale di Michail Gorbaciov, rientrò in Russia per rivedere la sua prima insegnante di danza e la madre cui rimase legato profondamente per tutta la vita.

Ma la vita è uguale per tutti: il leone della danza si ammala di AIDS e, seppure combattivo fino alla fine, il 6 gennaio del 1993, la malattia lo strapperà a quella vita che, da protagonista aveva cavalcato senza riserve, tra successi e dolori, soddisfazioni infinite e malinconie struggenti.

La stella di Rudy continua imperitura a brillare. Ci ha insegnato che la grandezza esiste, che i limiti son fatti per essere affrontati e superati e che, a volte, neppure la morte può cancellare il nostro operato. Perché se ci chiamiamo Rudolf Nureyev, continueremo a brillare. Per sempre.

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