Rudolf Nureyev e i fiori di campo

Oggi nel 1993 moriva Rudolf Nureyev

di Elio Zingarelli
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“Salve, la puntata di oggi è dedicata a Rudolf Nureyev che, come voi sapete, è morto di AIDS non molti mesi fa. Per la verità tutto ciò che noi facciamo nel campo della danza è dedicato a lui quest’anno, penso, e chissà ancora per quanti anni. E non soltanto noi, penso chiunque operi in questo mondo non può fare a meno di sentire vicina la sua presenza che è un’ispirazione per tutti perché non soltanto Nureyev è stato un grande danzatore e un eccellente coreografo, specialmente nella ricostruzione e nella reinvenzione dei classici, ma era una persona estremamente intelligente ed era il meglio perché era il più intelligente.”

I lettori mi perdoneranno la citazione tanto lunga ma l’intervento di Vittoria Ottolenghi in apertura di una puntuta del suo programma Maratona d’estate esplica molto chiaramente non solo la vera causa del decesso, che non avvenne per una “complicazione cardiaca al seguito di una grave malattia”, come sostenne il 6 gennaio 1993 Michel Canesi, il medico che l’aveva curato, ma anche la sostanza essenziale dell’operato di Nureyev, del suo contributo e del suo lascito.

Gli uomini e le donne i cui nomi oggi corrispondono al concetto di mito o leggenda sono o scomparsi o morti prematuramente e in tal senso il nome del danzatore, baschiro di origine e sovietico di cittadinanza, può essere annoverato in questa lista. Ma i suoi 54 anni sono bastati a forgiare una personalità complessa e ambigua, o meglio così viene descritta da chi lo ha conosciuto ma anche da chi ne ha solamente sentito parlare.

Era un uomo solo, o forse era un modo di volere essere solo per garantirsi la liberta; ha sdoganato il balletto classico e ha fortemente rivalutato il ruolo del danzatore, ma prima di lui già Maurice Béjart aveva agito a tal proposito; aveva una muscolatura perfetta, in verità fra un atto e l’altro doveva farsi massaggiare continuamente dietro le quinte; era un uomo avaro, in realtà aveva conosciuto la povertà e temeva la fame.

Chi scrive, uno che ne ha solamente sentito parlare, riporta le opinioni discordanti: divergenze convergenti in un uomo capace di tenerezze e asprezze che si sono intrecciate nella sua vita fin dalla sua nascita avvenuta nel 1938 su un vagone della Transiberiana sperduto nelle steppe russe, poi nel varco della cortina di ferro, tra le luci del jet set, e negli eccessi e negli estremi per il timore di morire senza aver provato tutto il possibile.

Oltre a ballerino e coreografo, infatti, Nureyev è stato attore, direttore della danza e direttore d’orchestra e prima amante della letteratura, delle arti e conoscitore della musica. Doveva provare, fare, sperimentare per saziare e assecondare la sua inquietudine affinché non diventasse inquietante. Lontano dall’unione sovietica, Rudy (sintesi amicale privilegiata rispetto a Rudol’f Chametovic Nureyev) ha fatto la sua rivoluzione rompendo forme, movimenti, confini, limiti, convenzioni e gerarchie.

Talentuoso e avventuriero, ribelle e nostalgico, Nureyev non ha danzato di fianco al pubblico, godendo solamente e incondizionatamente di fama e prestigio, ma davanti, guidandolo tra esperienze nuove, audaci e rischiose che commettevano o combinavano armonicamente danza classica e danza moderna affinché “l’una si rigenerasse dall’altra”, come egli stesso sosteneva. E sempre davanti, o meglio difronte al pubblico, a conclusione della danza che non segnava la fine dello spettacolo, si poneva Nureyev dopo avere attraversato il palcoscenico con una camminata felina, oggi da alcuni emulata. Fermo in proscenio, dal basso verso l’alto apriva le braccia per donare e accogliere, creare empatia e sentimento, coltivare relazioni istantanee che nella sua esistenza non curava, ammesso che ci fosse una differenza tra vita e scena.

Si protendeva verso gli ordini più alti dei palchetti e poi chinava solamente il capo mentre calpestava i fiori che i suoi ammiratori avevano gettato sul palcoscenico. Alcuni erano fiori di campo, i suoi preferiti: questi nascono spontaneamente in natura, senza essere intenzionalmente seminati e per vivere, senza ricevere cure altrui, sfoggiano un forte temperamento che li connota di una bellezza grintosa se anche un po’ rozza. La stessa che Nureyev ha esibito sul palcoscenico del mondo, l’unica casa dove lo attendeva il suo pubblico che colmava il silenzio e le solitudini affollate degli appartamenti acquistati nei vari continenti, colme di preziosità di gusto occidentale e orientale e le cui pareti erano ricoperte di quadri spesso rappresentanti fiori di campo.

Come non esiste una definizione scientifica di tale categoria, il cui riconoscimento a volte è delegato a opinioni e gusti comuni, così non sussiste una determinazione esaustiva e totalizzante del danzatore la cui rarità ha soppiantato la sua precoce caducità che pure implica una rivitalizzazione accurata e costante necessaria tanto quanto l’attività di conservazione dei fiori selvatici.

Coloro che hanno visto Nureyev danzare riferiscono di un’esperienza irripetibile, spesso anche richiamando momenti più agiti che danzati (come l’entrata dell’artista ammantato nel II atto di Giselle). Chi non ha fatto tale esperienza anche solo per motivi anagrafici nutre, a volte, un dubbio su questa unicità tanta propugnata alimentato dalla nostra epoca che circoscrive la professionalità alla serietà e alla serialità, al virtuosismo e al convenzionalismo, sfiduciando l’estrosità, l’eccentricità, ma anche la libertà di scegliere.

Per fortuna restano i filmati consultabili sulle piattaforme digitali, forse pochi rispetto alle riprese effettuate, ma permettono comunque di sentire la presenza di Nureyev, come sosteneva l’illustre italiana, che anche quando non si tramuta in ispirazione manifesta la maggior qualità del danzatore, ovvero l’intelligenza che con acutezza visiva possiamo cogliere, e che ha reso la sua danza sagace, penetrante e bramosa.

Crediti fotografici: Alan Bergman

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