Il freddo è ormai giunto, l’autunno sfuma nell’inverno addentrandosi nelle nostre giornate e nelle ossa, la vita organica su questo emisfero del nostro pianeta si appresta al gelido sonno, sospendendosi fino all’arrivo della nuova stagione di rinascita: gli alberi si sono spogliati, alcuni animali hanno riempito le dispense di provviste, altri si sono fatti crescere una pelliccia più folta per far fronte alle rigide temperature in arrivo, altri ancora si preparano la tana per andare in letargo. Il danzatore, invece, rimane sempre in quello che è il suo habitat naturale: la sala. Che sia per studiare o per provare, quello è il luogo in cui le sue giornate si svolgono, qualunque sia la stagione in corso.
Non appena il fronte invernale si fa annunciare, il corpo comincia a reagire: ossa scricchiolanti, rigidità generale, un senso di accartocciamento della struttura, e la necessità di far precedere qualsiasi attività da un lungo, completo warm up. Ricordo ancora come ci lamentavamo in estate per il troppo caldo e la pressione sotto alle suole delle scarpe, ma è vero anche che il corpo in quelle condizioni si scalda in fretta, mentre d’inverno è già una sofferenza al mattino dover uscire dal caldo della coperta.
Non tutte le strutture, poi, hanno un sistema di riscaldamento adeguato, anzi, proprio a causa della grandezza considerevole degli spazi utilizzati per danzare, molto spesso il riscaldamento non è sufficiente, o ci sono spifferi e subdole correnti di aria fredda, per non parlare del pavimento ghiacciato, che ci fa venire la pelle d’oca quando ci stendiamo a terra per allungarci e la pelle scoperta tocca il gelo polare. Normalmente in questa stagione cerco di adottare qualche semplice stratagemma per aiutare gli allievi a preparare il corpo alla danza, per esempio facendo la prima parte del riscaldamento, la sessione che comprende pre sbarra, pliés, tendus e jetés, per intenderci, con sequenze semplici e più ripetizioni, tenendo un ritmo piuttosto serrato e sostenuto, senza interruzioni, per produrre fin da subito una certa quantità di calore, necessaria al corpo per aprirsi e lubrificare le articolazioni. Quando proprio vedo che si fa fatica a prendere il controllo allora prolungo questa sessione di riscaldamento assegnando più esercizi diversi di tendus e di jetés sempre più intensi e veloci, prima di passare oltre al rond de jambe par terre.
Ad ogni modo l’unica cosa che può davvero aiutare è coprirsi il più possibile.
I ballerini sono esperti in questo genere di cose, ultimamente va di gran moda utilizzare il piumino senza maniche da indossare per i primi esercizi alla sbarra, oppure quegli stivaletti imbottiti che hanno visto un boom di vendite negli ultimi anni, ma che io onestamente trovo di una bruttezza senza pari. Certo, hanno la loro utilità, sono caldi, ma veder fare i tendus con le zampette da orsacchiotti mi fa sempre un certo effetto, e poi rimane sempre il problema, immagino, del momento in cui inevitabilmente dovrai toglierli avvertendo ancora più freddo di chi non li ha indossati. Ad ogni modo, personalmente, non li amo perché li hanno proprio tutti, e quindi per me rappresentano una forma di omologazione, ossia una manifestazione di appartenenza per la quale nutro una profonda idiosincrasia. Ai miei tempi (parlo come se fossi una vecchia nonnina in pensione, ma molte cose sono cambiate da quando ero in formazione) ognuno di noi aveva qualcosa di personale: chi metteva calzettoni di lana sopra alle scarpe, chi le ciabatte o le babbucce dalle più svariate fogge. Era molto più divertente a mio parere.
Fatto sta che tra piumini, stivaletti, calzettoni, maglioni e felpe la borsa del danzatore, già proverbiale, in questa stagione diventa un bagaglio vero e proprio. Siamo abituati da sempre ad andarcene in giro con la casa appesa addosso, proprio come le lumachine: i vestiti per la lezione, le scarpe, l’occorrente per la doccia, la bottiglia dell’acqua, qualcosa da mangiare e se insegni anche i libri e la musica. Tutto ciò che occorre per trottare da un impegno all’altro lungo la giornata. Ogni volta ci provo a viaggiare leggera, ma non so come alla fine quando sto per uscire e tiro su il bagaglio mi accorgo che è sempre straripante. Ormai quando non ho quel carico sulle spalle ho la sensazione di aver dimenticato una parte di me a casa.
Quando poi ci si cambia in spogliatoio (a volte mi pare che la vita di un danzatore non sia altro che un continuo cambiarsi d’abito) e il contenuto dello zaino viene tirato fuori, sembra di avere la borsa di Mary Poppins e lo spazio attorno viene invaso da tutto quel mercato di roba diligentemente piegata e profumata di bucato, salvo poi, in conclusione della lezione, rimettere tutto l’armamentario dentro alla rinfusa, puzzolente e umidiccio, prima di andare verso la successiva classe di danza, e il successivo spogliatoio, dove questa volta però nello zaino ci sarà il caos primordiale, l’acqua si sarà versata perché non l’avevi chiusa bene e l’asciugamani umido avrà impregnato il libro che stavi leggendo, che ora profuma di bagnoschiuma.
Questo è l’inverno del danzatore, fatto di ossa scrocchiarelle, caldi abiti e zaini pesantissimi.
Non sarebbe meglio a questo punto andare in letargo?