Una delle grandi malattie di questa epoca, contrassegnata sempre più dall’attrazione verso la quantità, ma molto meno dalla qualità, è l’impazienza. Io stessa mi rendo conto del cambiamento avvenuto nella mia capacità di ‘stare nelle cose’ da quando la tecnologia è entrata nel quotidiano. Chi ha la mia età fa parte di quella generazione che ha vissuto la rivoluzione tecnologica e la trasformazione che questa ha portato nel nostro modo di vedere il mondo, nelle abitudini, nei meccanismi di apprendimento e soprattutto nella velocità con cui riusciamo a fare cose che prima invece richiedevano ore.
Da giovane allieva dell’Istituto Statale d’Arte di Catania ho trascorso mesi interi a disegnare lettere a mano, prima con la mina di grafite sottilissima, per poi ripassarle a china: un lavoro da amanuense miniaturista, che finivo con gli occhi stanchi e arrossati per lo sforzo e i muscoli della mano tesi nella ricerca di un gesto chirurgicamente preciso, con lo scopo di evitare lo spargimento improvviso di inchiostro, che aveva come conseguenza quella di dover prendere un altro foglio bianco e ricominciare tutto da capo. Oggi con un click è possibile scaricare ed utilizzare qualsiasi font che la tua fantasia possa concepire, e in cinque minuti il tuo progetto è già pronto da stampare, senza che neanche ti debba sporcare le mani a temperare una matita. A ripensarci bene, però, disegnare lettere era come una forma di meditazione, di certo non uno dei compiti più creativi che potessimo fare, perché serviva solo a sviluppare le nostre capacità tecniche di disegno, ma proprio per questo dovevo restare totalmente concentrata nel momento presente, senza concedermi alcuna distrazione, e senza impazienza, poiché la fretta di finire poteva tirare brutti scherzi.
Da quando sono arrivate le invasioni barbariche di computer, tablet e smartphone, ho notato in me l’insorgere di una certa impazienza: guardo un video, non lo finisco neanche e già passo ad un altro. Leggo articoli saltando da un paragrafo all’altro, magari li condivido anche, ma senza averli letti a fondo. Sono affetta da questa forma di bulimia di informazioni, che colleziono impazientemente e con ingordigia, ma che dimentico dopo un istante. Come può questo non riflettersi poi su ogni altro aspetto dell’esistenza, se non si rimane vigili? Non si può comprendere il valore della lentezza quando la mente è costantemente già alla ricerca di qualcos’altro. Questo è uno dei motivi per cui non riesco ancora a separarmi dai libri di carta in favore di un forse-più-comodo lettore, come ce ne sono molti in commercio, che farebbe risparmiare spazio e cellulosa. Il libro è un fiero simbolo delle mie origini, della mia appartenenza ad un altro secolo. Intrattengo con i libri un rapporto quasi carnale: li annuso, li accarezzo, sottolineo, prendo appunti sui margini, attacco pecette e pezzettini di carta per segnare i punti in cui ci sono i passaggi che mi hanno colpita. Il libro porta in sé un’idea di lentezza, apre la possibilità ad un tempo sospeso nel quale possiamo prenderci cura del mondo immaginato in cui stiamo penetrando.
Nello studio della danza meno che mai l’impazienza è davvero un parassita caustico e corrosivo, che ci impedisce di comprendere il senso profondo di ciò che stiamo facendo, e soprattutto non ci consente di capire come il nostro corpo, con le sue peculiarità, possa raggiungere dei traguardi importanti costruendosi una strada tutta sua. L’impazienza ci intrappola nel territorio della brama e dell’imitazione, azioni che rappresentano solo la crosta superficiale del processo di apprendimento. Tutti noi abbiamo imparato cosa sono le espressioni osservando il viso di nostra madre o di nostro padre, sgambettando nella culla. I neuroni specchio sono una realtà abbastanza conosciuta in ambito scientifico, ed hanno una importanza fondamentale in molti aspetti dell’essere, tra cui anche l’apprendimento, ma questo può essere utile solo per un primo approccio. Poi bisogna approfondire, indagare, e soprattutto guardare in direzione del proprio sé. L’impazienza ci porta ad eseguire forme, imitandole, come se mettessimo in fila delle foto, dimenticandoci che la danza è nella qualità di tutto ciò che sta tra una posa e l’altra. L’impazienza ci porta a non vedere la bellezza che possiamo trovare nell’esecuzione corretta di una glissade, perché siamo già presi a fare il grand Jeté e non comprendiamo l’importanza di quella glissade nella tecnica di volo. L’impazienza è quella vibrazione sfiancante che ci fa desiderare il risultato perfetto e che ci fa sentire dei falliti se non lo otteniamo subito, quando invece dovremmo cercare di osservare questo genere di eventi come un’opportunità in più per individuare le aree di miglioramento nella nostra prestazione. L’impazienza è quel tarlo che crea il desiderio di mettere subito le scarpette da punta, indossare il tutù, andare in scena, vincere un concorso, essere selezionati alla prima audizione. È sempre lei che, nel momento in cui non otteniamo tutto ciò, ci spinge verso la rinuncia, spostando le nostre attenzioni altrove, in territori dove magari il successo è più accessibile, ma forse perché il contesto è di qualità inferiore. Trovo che la danza sia un’ottima maestra per i giovani allievi, nativi digitali abituati ad un mondo a portata di click, poiché li obbliga ad alimentare la calma, l’osservazione, l’indagine e soprattutto pazientare in attesa dei risultati, con la fiducia di chi sa che, lavorando bene, con onestà e intelligenza, prima o dopo arriveranno.
‘Stare nelle cose’. Come si faceva una volta.