Questa estate, in gita in una magnifica valle dalle parti di Domodossola, alla ricerca di un po’ di fresco, incontro un collega, che da anni ormai vive a Bruxelles, città molto amata dai danzatori che rappresenta una tappa importante nei secolari spostamenti di questa arte randagia e nomade. Dopo convenevoli e scambio di aneddoti più o meno divertenti, un classico tra amici cari che non si vedono da tanto tempo, la discussione si sposta su come procede il lavoro, e da quel momento comincia a dispiegarmisi davanti un nuovo spiraglio sulla miserabile vita di chi fa il mestiere dello spettacolo qui in Italia. Mentre racconta mi rendo conto che lui, molto più giovane di me, in pochi anni è riuscito a costruirsi una sicurezza che io non potrei ottenere neanche se sgambettassi fino all’ultimo dei miei giorni, e sento una nota di sconforto risalirmi tra la maglietta e la schiena, come una gocciolina di sudore che segue un percorso inverso, andandosi ad insinuare in un punto preciso del cervello: l’area dello sconforto.
Sapevo che in molti paesi della nostra Europa gli artisti vengono tutelati proprio in merito alla natura intermittente del lavoro, ma sentirselo raccontare così nei dettagli, come fosse la cosa più normale del mondo, mi mette una sensazione di disagio, come se il mio sedere poggiasse sul letto chiodato del fachiro.
Mi spiega che lì sostenere chi ha un lavoro intermittente non è considerata una spesa inutile per lo Stato, anzi, si tratta di un investimento a lungo termine sul benessere dei cittadini, obiettivo molto importante da raggiungere, pare, fuori da qui. L’accesso a quello che potremmo chiamare ‘salario’, un sostegno che lo Stato offre a chi percepisce una paga a prestazione o con contratto inferiore ai tre mesi, chiamato ‘statuto dell’artista’ e copre i periodi in cui non lavori. Questo permette di poter continuare a studiare, fare le audizioni, viaggiare per la formazione, consentendoti di investire il tempo per sviluppare la tua professionalità, senza bisogno di fare un altro lavoro per mantenerti, il che inoltre toglierebbe occupazione a chi sa svolgere quella mansione meglio di te, perché magari ha studiato per fare esattamente quello, mirando così alla felicità del lavoratore e all’effetto su larga scala che questo avrà sulla società in cui è integrato.
Appena tornata a casa gli chiedo di inviarmi del materiale per informarmi, perché credo sia importante per chi lavora qui in Italia sapere cosa vuol dire vivere in un contesto che ti identifica come individuo, prima , e come lavoratore poi. Sulla pagina web della AFE (Agence France Entrepreneur) trovo questa frase: il termine ‘artista libero’ non corrisponde ad alcun vero e proprio status. Gli artisti dello spettacolo sono “impiegati nel settore dello spettacolo”, assunti in virtù di un contratto con una durata definita’.
Eccoci ancora al nodo cruciale del riconoscimento. Contratti e diritti vano a braccetto.
La pagina di GdA (Guichet des Arts), invece, riporta una piccola ma puntuale guida per accedere a questo tipo di sostegno in modo del tutto comprensibile e accessibile a tutti, anche se poi esistono realtà che aiutano gli artisti a gestire la parte burocratica, senza dover mantenere costosi commercialisti e soprattutto senza aprire la partita Iva: in caso di necessità è possibile affittare una posizione Iva ad un organismo chiamato SMART. Sulla home page del loro sito campeggia la scritta: ‘voi create e noi gestiamo’ e sotto una grande quantità di informazioni utili. Tutto è più semplice e leggero, al punto che il mio amico fa tutto da solo, chiedendo aiuto solo in caso di necessità.
Per poter percepire questo tipo di sostegno bisogna dimostrare di aver accumulato una certa quantità di giornate lavorative, in base all’età, secondo un impianto burocratico flessibile e trasparente, che guarda e si adatta alla specificità di ogni caso. Dal momento in cui hai accesso per la prima volta allo statuto dell’artista, si matura la possibilità di rinnovarlo per sempre, dichiarando di volta in volta quanti giorni hai lavorato al mese, in modo da poter essere coperti per i restanti.
Un altro aspetto importante, che ci interessa più da vicino, è che si possono combinare performance artistiche differenti e anche non artistiche, infatti il mio collega lavora sia come dipendente dello spettacolo, con scritture nei vari teatri del territorio, che come insegnante di danza e pilates. Tutti questi lavori diversi vengono poi convogliati in un unico corpo e le giornate conteggiate, senza codici, scartoffie e tutte quelle inutili complicazioni che qui, invece, ci rendono impossibile l’esistenza.
Chi mi conosce sa quanto io sia allergica all’esterofilia a tutti i costi, tant’è che sono rimasta qui a lavorare sodo per cercare di portare avanti un progetto di vita sostenibile e che appaghi le mie seppur modeste ambizioni. Non ho scritto con l’intento di ‘sputare sul piatto in cui mangio’, come qualcuno spesso mi dice, aggiungendo che ‘se non mi piace stare qui posso anche fare le valigie’. Credo che la critica sia indice di salute in una democrazia, e spero sempre che insieme, uniti, potremo un giorno sollevare una voce che merita di essere ascoltata, perché se il piatto in cui mangi è quello dove ci hanno mangiato altri, a centinaia, magari a pensarci su ti viene anche un po’ di schifo all’idea di ficcarci la forchetta per nutrirti di avanzi, no?