Amore e tutte le sue declinazioni. Amore puro, il primo, amore vitale, amore corrisposto, amore vile, corrotto, amore venduto, tradito, amore sofferto. Amore che uccide.
E forse non sono abbastanza per nominare tutte le sfaccettature dell’amore che il Teatro alla Scala ha voluto raccontare con la messa in scena de L’Histoire de Manon, in chiusura della stagione 2014-2015.
Il balletto, ispirato alla Manon Lescaut di Prévost, porta in palcoscenico frammenti di vita di una giovane donna, travolta dalla società troppo vile e di dubbia moralità, una società spietata contro la quale anche l’amore si rivela del tutto impotente.
I temi toccati rappresentano profondi spunti di pensiero; certo erano altri tempi ma la vicenda porta alla luce i mali più profondi della società dell’epoca che inducono lo spettatore a riflettere. I costumi dissoluti, l’amore venduto al miglior offerente, il potere abusato, l’omicidio, le sentenze impari, cui si aggiunge la fatalità di un destino troppo crudele.
Difficile misurarsi con una storia di tanto spessore morale ma, ancora una volta, il corpo di ballo del Teatro alla Scala e i suoi fiori all’occhiello soddisfano le aspettative, anzi stupiscono.
Nella serata dello scorso 17 novembre, nel ruolo di Manon, Svetlana Zakharova ha danzato al fianco di un intenso Roberto Bolle. Incantevoli entrambi, superlativi insieme.
Zakharova interpreta sentendosi Manon con ogni fibra del suo essere, capace di creare quella speciale tensione drammatica che convince. Ella è partecipe totalmente delle sofferenze del suo personaggio. Esibisce inizialmente il candore di una fanciulla innamorata, subito perso e dimenticato perché attratta dal fascino luminoso della ricchezza. Ha la fortuna di conoscere il vero amore ma anche la corruzione di una vita lasciva; inerme, quasi rassegnata alla sua condizione, le è concesso qualche attimo di felicità e di speranza, momenti in cui il sorriso più sincero si apre sul viso dell’étoile e una sensazione di infinita gioia pervade il suo movimento. Una sincerità che Manon riserva solo all’amato Des Grieux, l’unico cui dischiuda il suo animo. Qui troviamo un perfetto Roberto Bolle, teneramente convinto che il suo amore possa sconfiggere ogni avversità. Dal principio danza con devozione, giurando il suo amore fin dall’assolo iniziale.
Sono senza dubbio i pas des deux i momenti dove il loro sentimento si fa immenso, irradiandosi in tutto il Teatro: sintonia eccellente, due figure che si fondono in un unico movimento, una corrispondenza continua tra loro due soli, senza lasciare spazio alle preoccupazioni. I due protagonisti si lasciano incantare l’una dall’altro e viceversa, riservando quelle rare emozioni solo per i loro animi.
Manon rientra tra quei balletti che presentato una trama umana, terrena, senza ambientazioni surreali o creature fantastiche, priva di sogni o viaggi ultraterreni. In particolare, la vicenda non contempla coincidenze, stranezze o casi paradossali; tutto scorre in modo crudamente reale, quasi fosse uno spezzone di vita del 1700. Questa estrema realtà è una delle componenti più significative del balletto, e lo rende particolarmente interessante da interpretare e da fruire.
Gli interpreti tutti sono credibili e si raccontano attraverso la loro danza. Ad esempio, Lescaut (Antonino Sutera) è sguaiato, quasi grottesco, mentre Mounsier G.M. (Alessandro Grillo), altezzoso, domina con potere sulla vita di Manon; le fanciulle esibiscono le loro grazie in una danza gioiosa e frivola, alla ricerca del più facoltoso tra i gentiluomini.
La coreografia, frutto della genialità di Kenneth MacMillan, è ricca, coinvolgente e inaspettata. Lode ai passi a due dedicati ai protagonisti, tutti, anche se diversi per tematica ed emozioni, pensati come se a danzare fosse un tutt'uno, una entità unica.
Di grande acume il passo a tre nel quale Lescaut subdolamente consegna Manon a Mounsier G.M., bramoso di averla.
Ottima la prova del corpo di ballo e di tutti i solisti, giovani e promettenti danzatori di cui la Scala può andare certamente fiera.
Struggente, profondo, letale. Manon è il balletto del disincanto, dove l’amore, nemmeno il più puro, può nulla e la tragedia sopraggiunge inesorabile.