Tecnica e talento: due facce della stessa medaglia

di Lia Courrier
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A volte mi capita di pensare che se Nureyev fosse nato in questi anni non sarebbe mai riuscito ad emergere diventando la leggenda che è stato, e noi ci saremmo persi una delle più belle pagine della storia del balletto, e forse anche della danza, nel suo senso più ampio. Dico questo perché i talenti che Rudy possedeva non risiedevano in un corpo perfettamente accessoriato per la danza classica, anzi, il suo strumento complicato è stato forgiato solo dalla sua determinazione, dall’intelligenza e dalla curiosità che bruciavano letteralmente in lui in modo incontenibile. Lo studio incessante della tecnica e la padronanza del gesto danzato hanno poi permesso alla sua luce di illuminare un’intera epoca, di cui siamo un po’ tutti figli ancora oggi.

Il talento e la tecnica: due facce della stessa medaglia, in una continua interrelazione e reciproca dipendenza secondo cui l’uno non può emergere in assenza dell’altra. Quando ci si ritrova ad essere carenti su una delle due facce, accade automaticamente di compensare dedicandosi alla lucidatura dell’altra, fino a trovare il proprio personale assetto in cui questi due elementi si bilanciano in un equilibrio dinamico atto a sostenere il lavoro del danzatore, nel presente e anche lungo tutta la sua evoluzione futura.

Bisogna dire che per diventare dei bravi danzatori si necessita di entrambi, almeno in una minima parte, ma contrariamente a quanto forse penserete in molti, secondo me il talento -inteso come mera predisposizione fisica e motoria- è sopravvalutato. In particolare in questo tempo che viviamo, in cui vale la regola del tutto e subito, lasciamo facilmente che il nostro sguardo venga catturato subito dal talento sfacciato, da un paio di gambe perfettamente disegnate, da un bel viso, dalla facilità nel giro o nel salto, da una peculiare qualità o da una forte e istintiva presenza. Ci sono persone che pare siano state baciate alla nascita direttamente dalle muse delle arti, dotate di un corpo che possiede una innata familiarità con il movimento, che consente loro di apprendere velocemente abilità che ad altri costano anni di lavoro. Ma questo è solo un dono che Madre Natura ha concesso, e magari capita anche che decida di farsi beffe di noi, dimenticandosi di fornire queste stesse persone anche della passione per la danza, di quel trasporto emotivo che fa da dinamo lungo tutto l’indefinito processo di apprendimento di un danzatore che, come sappiamo, è tutt’altro che lineare e semplice. In questo caso, quindi, quando il talento non è supportato dalla conoscenza, se ne resta rinchiuso come un prigioniero, incapace di esprimersi, mentre la danza si limita ad essere un noioso esercizio ginnico.

Questo è il classico genere di allievi che fa impazzire gli insegnanti, che non appena vedono entrare in classe quel corpo dal grande potenziale, si fregano già le mani all’idea di cosa riusciranno a tirarci fuori, salvo poi rendersi conto che, incapace di focalizzare l’obiettivo, l’allievo si limita a fare appena ciò che gli riesce, procrastinando quando la richiesta tecnica gli richiede un maggiore impegno.

Altre volte un danzatore che non ha particolari talenti fisici o motori, possiede invece quell’ardore, o quella che io chiamo ‘urgenza’, che lo spinge oltre il proprio stesso limite, addomesticando il proprio corpo nel movimento alla conquista della tecnica, qualunque essa sia (perché a questo punto direi che è proprio giunto il momento di abbandonare il vecchio paradigma ‘il balletto è la base di tutto’), la quale diviene una porta aperta attraverso cui il mondo interiore  può mostrarsi all’esterno, in virtù di un codice – nel caso del balletto – o di una serie di strumenti, corporei e intellettivi, che rendono assoluto e impersonale il messaggio, la sua comunicazione e anche il comunicatore. Impersonale non nel senso di ‘privo di emozione’, ma nel senso in cui lo strumento tecnico permette di posizionarsi alla giusta distanza dal contenuto di quella danza, rendendola non più un atto privato e interiorizzato, ma qualcosa che può arrivare a toccare ogni spettatore. Il valore inestimabile della tecnica è, quindi, sviluppare la capacità di comunicare, in modo chiaro e diretto, dallo spazio interno verso lo spazio esterno, ma non solo: la conoscenza tecnica consente al talento di mostrare le sfaccettature più raffinate e sottili, che si svelano nel tempo e con l’esperienza.

Tengo a precisare che per me possedere una tecnica non vuol dire saper fare virtuosismi acrobatici o ginnici, ma danzare con consapevolezza e controllo, capacità di andare ‘all’osso’ del movimento, mostrandone la sua essenza più pura senza aggiungere nulla di superfluo, con un corpo che si muove in armonia con sé stesso, lo spazio, il ritmo, il respiro e anche con il messaggio che si vuole trasmettere. Penso sia molto importante che accanto al talento venga promosso anche un percorso serio di apprendimento della tecnica, al di là degli inutili estetismi, poiché il talento da solo non è che un giocattolo di cui ci si stanca presto, mentre invece gli innumerevoli processi che vengono attivati, attraversati ed elaborati per l’acquisizione profonda di una tecnica, sono già di per sé un tesoro da custodire con cura. Puntare tutto sul talento è un po’ come usare una costosa stilografica dal pennino d’oro per scrivere la lista della spesa su un tovagliolo di carta: uno spreco. Certo, piacerebbe a tutti sapere di poter contare su una strada facile e breve per raggiungere la realizzazione, ma ahimé questo non fa parte della nostra natura. Senza dedizione allo studio, con intelligenza e passione, il talento resta pressoché invisibile.

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