Tony Lofaro: “Dopo 25 anni di carriera, mi trovo là dove sarei voluto essere”

di Francesco Borelli
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Venticinque lunghi anni che vivi, attivamente, nel mondo della danza. Ti ricordi come sono cominciati? Il primo giorno in cui è iniziata la tua storia danzata?

Si trattava de “La vedova allegra” con le coreografie di Alessandra Panzavolta e andava in scena al Teatro Comunale di Bologna. Ricordo, forte, la sensazione di sentirmi spaesato e privo di alcuna consapevolezza. Mi guardavo intorno con gli occhi spalancati, certo del fatto che stessi vivendo un momento stupendo. Ma mai avrei pensato che quella sarebbe stata la mia professione. Avevo iniziato a studiare danza molto tardi e non ritenevo possibile che quei sogni legati a questo mondo potessero diventare realtà. Durante una generale un signore del coro mi chiamò in disparte e mi disse: “Sai che sei il nostro ballerino preferito? Tu hai qualcosa da dire”.

Oggi, se ripenso a quelle parole, ne leggo un significato. La comunicazione nella danza credo sia stato il mio punto di forza. E come danzatore e come coreografo.

Quando hai compreso che quella sarebbe stata la strada giusta per te?

Non c’è stato un momento in particolare. Tutto è avvenuto naturalmente. Di certo ho avuto fortuna e sono stato il danzatore giusto nelle situazioni in cui mi trovavo. Ѐ stato come indossare una giacca di taglio sartoriale che mi vestiva perfettamente e che non mi dava disagio. Piuttosto penso a un momento di snodo nel 2010 in cui ho deciso di lasciare il palcoscenico e dedicarmi alla coreografia, contesto nel quale avevo profonda necessità di mettermi alla prova.

Tornando a te danzatore, c’è stato un momento in cui ti sei sentito veramente bravo?

Non è mai successo. Sono sempre stato profondamente autocritico. Piuttosto c’è stato un momento in cui mi son detto: “Guarda dove sei arrivato con le tue sole forze”. Mi riferisco a quando Daniel Ezralow mi scelse, dopo una lunghissima audizione, per “Tosca, amore disperato” del Maestro Lucio Dalla.

Avevo viaggiato di notte ed ero arrivato a Roma stanchissimo e in ritardo. Entrai in sala e vidi centinaia di ragazzi. Pensai che non ce l’avrei mai fatta e invece a fine giornata eravamo rimasti in quattro. Non mi sembrava vero. Sono figlio di un operaio che ha lavorato per 38 anni in fonderia e l’esempio che ho sempre avuto è stato il suo: umiltà, dedizione al lavoro, impegno, sacrificio. Un focus importante che mi ha portato a desiderare di crescere, prima di tutto come uomo, poi come artista.

Solitamente l’amore per la danza nasce in giovanissima età. Difficilmente una storia racconta di un approccio così tardivo. Nel tuo caso, avendo iniziato a studiare danza a 18 anni, che cosa è accaduto?

Non credo al caso, penso che ci sia sempre un disegno ben preciso per ciascuno di noi, un progetto che ci riguarda e che ci conduce verso determinate direzioni. Nel mio caso è stata una persona che mi portò ad un’audizione per un centro di formazione professionale. Aveva visto in me qualcosa. Allora feci questo provino contro voglia e non credendoci affatto. Oggi, ovviamente, la ringrazio, perché se non ci fosse stata lei, probabilmente non sarei qui.

Oltre a “Tosca”, quali sono state le più belle esperienze che hai vissuto in qualità di danzatore?

A livello formativo certamente il periodo trascorso al Teatro Nuovo di Torino con Adriana Cava. Grazie a lei ho vissuto un’esperienza personale e lavorativa intensa e importante, non solo per le possibilità che mi son state proposte e che ho colto, ma anche per l’evoluzione personale profonda cui, quel periodo, mi ha portato. Una storia infinita che continua ancora oggi in qualità di coreografo ospite. Poi ripenso al periodo trascorso in America, dove ho conosciuto persone – tra cui Christine Coachman, Associate Vice President Royal Production International – che mi hanno portato nel mondo, meraviglioso, dell’entertainment. Ho sempre avuto una visione allargata del teatro, non ho mai visto confini, e quella parentesi mi ha donato una consapevolezza profonda del lavoro teatrale a 360 gradi.

Nel 2010 inizi a dedicarti all’insegnamento. Perché?

Ho scoperto l’insegnamento durante il periodo di lavoro con Ezralow. All’epoca era considerato di moda chiamare un danzatore che lavorava per un coreografo come lui. Diedi una lezione senza sapere bene cosa stessi facendo ma ricordo benissimo l’entusiasmo dei ragazzi e i loro occhi a fine lezione. Fu così che mi innamorai. Per qualche anno continuai con sporadiche lezioni, e poi capì che desideravo dedicarmi a quell’attività, prima di tutto. Mi piaceva l’idea di trasmettere ciò che io per primo, sul palco, avevo vissuto. Con tutto il rispetto per tutti i maestri del mondo ma penso che aver calcato il palcoscenico, dia ad un maestro una marcia in più. Ad oggi non potrei farne a meno.

Secondo te, i ragazzi che seguono le tue lezioni, che cosa hanno di più o di meno, rispetto al ragazzo che eri tu una volta?

Probabilmente, rispetto a me, che non sempre ho avuto questa fortuna, hanno la possibilità di avere davanti un maestro che si dona loro completamente, cercando di valorizzare prima di tutto la loro unicità e una emotività profonda che la danza, inevitabilmente, porta con sé.

25 anni sono una vita intera. E sappiamo bene che nella vita ci sono tanti momenti belli ma anche momenti difficili? Quali sono stati?

Ѐ capitato, a volte, di trovarmi in situazioni in cui non stavo bene, contesti in cui non ero sereno e, con fatica, tolleravo la pressione. La vita del danzatore è una vita sacrificante, e ogni giorno ti trovi davanti a uno specchio che non è solo quello della sala danza, ma quello della vita: i maestri che non sono giusti per te, i colleghi non sempre sinceri, i no che ricevi, le porte che si chiudono. Ma fa parte del mio bagaglio, dello zaino delle mie esperienze.

Che danzatore sei stato? Che voto ti davi?

Credo un sette e mezzo.

Quali qualità avevi?

Ero un bravo saltatore, veloce, scattante, e avevo un ottimo giro. Ero, poi, molto comunicativo.

Come coreografo?

Mi darei sette. Ci sono lavori in cui sono riuscito bene ed altri meno. Sono mille i fattori che condizionano la buona riuscita di un lavoro. Negli ultimi anni sono cresciuto e mi apprezzo un po’ di più.

La cosa più bella che hai fatto?

Ho amato molto “Sindrome da web” ma sicuramente “Anna, figlia della Shoah”, spettacolo cui sto lavorando, è il viaggio più intenso; un viaggio nella creatività, nell’ascolto, nel documentarsi, nella sensibilità di approccio. Una grande responsabilità che non si può spiegare.

Inoltre, da un punto di vista coreografico, è un’esperienza di vita e di condivisione coi danzatori che porterò per sempre con me. Tornerà in scena il 31 gennaio al Teatro Lirico Giorgio Gaber di Milano.

Che voto ti dai come docente?

Nel caso dell’insegnamento mi sento in una zona di comfort molto bella. Vedere il loro mutare, tecnicamente e non solo, è una grandissima soddisfazione. Mi darei 8. E non solo per ciò che credo di saper dare ma anche per ciò che mi torna indietro.

Quest’anno “hai compiuto 25 anni”. C’è un modo in cui ti piacerebbe festeggiare?

Non ci ho mai pensato. Non credo di aver la necessità di festeggiare nel senso stretto del termine. Per me festeggiare è ciò che sta succedendo in questo anno: ho fatto un po’ di conti, mi sono riascoltato, ho ripassato tanti momenti della mia vita. Io sono sinceramente contento così: mi trovo là dove sarei voluto essere.

E tra altri 25 anni dove sarai? Come ti vedi?

Mi vedo in riva al lago nel paese in cui sono nato. Dedicandomi ai miei affetti e a ciò che ho trascurato. Per fare bene questo mestiere qualcosa va messo un pochino da parte. Ci sono state situazioni in cui mi sono sentito mancare per qualcuno a cui volevo bene. Ecco, tra 25 anni vorrei sentirmi in pace, anche da questo punto di vista. E infine, sereno.

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