Torna Setteotto di Lia Courrier: “La danza pura dei piccoli”

di Lia Courrier
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Il Natale è un momento in cui si vorrebbe tutti ritornare un po’ bambini, quando ancora gli occhi erano capaci di spalancarsi di stupore immaginando storie fantastiche di elfi e doni arrivati dal grande freddo polare. Mi ricordo che ogni anno scrivevo la letterina a Babbo Natale, decorandola con disegni colorati, per poi metterla in una busta bianca con su scritto: per Babbo Natale, Polo Nord.

In questo periodo dell’anno molti ricordi d’infanzia si affacciano allo strato cosciente della mia memoria e, sebbene comincino ad essere trascorsi molti inverni sulla mia pellaccia, credo proprio che alcuni di loro non se ne andranno mai, cristallizzati in ogni dettaglio. Soltanto ogni anno diventa sempre un po’ più doloroso osservarli, poiché alla tenerezza e alla dolcezza si aggiungono note più aspre e pungenti, che forse fanno parte del difficile ma meraviglioso processo di diventare adulti di mezza età.

In molti di questi ricordi c’è la danza, compagna di sempre poiché ho cominciato molto presto a studiarla. Da piccola ero riuscita a raggiungere uno straordinario equilibrio nel vivere la mia vita con la danza, in modo del tutto naturale. Mi piaceva moltissimo andare a lezione e mi impegnavo come meglio potevo per eseguire i movimenti in modo corretto, ma soprattutto per riempirli di grande pathos interpretativo, come se ogni volta fossi davanti ad un pubblico, esperienza che mi aveva letteralmente reso ebbra fin dal primo saggio, a sei anni. Partecipavo alle lezioni con grande trasporto, ma allo stesso tempo ero capace di divertirmi, con quella leggerezza tipica dell’infanzia, dove anche giocare può essere la cosa più seria del mondo.

Mi ricordo che, dopo qualche anno di frequenza ai corsi di danza, il movimento era diventato una febbre difficile da sedare, così mi ritrovavo a ballare anche senza accorgermene, bastava solo che sentissi una musica o un ritmo alla radio perché una forza misteriosa cominciasse ad impadronirsi di me, e così senza che neanche me ne rendessi conto ero già in piedi ad accennare qualche strana danza inventata. Ero arrivata al punto che per me esprimermi attraverso la danza o le parole era la stessa cosa, così semplicemente e in modo del tutto istintivo, utilizzavo ciò che mi sembrava più adatto alla situazione.

Ricordo che una volta mio padre mise sul giradischi le quattro stagioni di Vivaldi, una composizione che poi mi ha accompagnata e ispirata per molto tempo, e come tutte le volte non appena sentii i primi accordi ecco che il mio corpo comincia ad essere mosso da quella energia che vive in me e che non è in grado di resistere al richiamo della musica. Allora corsi ad infilarmi un abito adatto, ne avevo diversi che usavo in queste occasioni, di solito si trattava di vecchie romantiche camicie da notte di mia mamma o di vestiti svolazzanti che la nonna, abilissima e talentuosa sartina, aveva risistemato in modo che potessi indossarli, per ritornare di corsa nella stanza in cui quelle note mi stavano chiamando, intimandomi di sbrigarmi. Che musica meravigliosa mi sembrava! Ariosa, dinamica, piena di movimento e di luce, in essa sentivo la natura esprimersi: quella musica celestiale era come un oceano nel quale mi ero immersa, con i suoi flutti e mulinelli che mi portavano nella danza in modo assolutamente naturale, senza alcuno sforzo. Non avevo ancora assimilato un vocabolario ampio di passi di danza, allora, studiavo da poco tempo, ma in quel momento non era necessario quel tipo di conoscenza, era qualcos’altro che emergeva dal mio corpo. Nessuno mi stava guardando, gli adulti erano impegnati in altre faccende, ormai abituati alle mie performance estemporanee, per cui danzavo per me stessa e per nessun altro. Per il puro piacere di farlo. Quando arrivò il secondo movimento dell’autunno, però, con quell’atmosfera così brumosa e sospesa, io mi dovetti fermare perché stavo per commuovermi irrimediabilmente e la danza che improvvisavo si rivelò  troppo triste per continuare ad esistere. Mi dovetti sedere e stare ad ascoltare quelle lunghe note tristi cercando in tutti i modi di trattenere le lacrime per non attirare l’attenzione. Volevo vivermi quel momento da sola. Mi ricordo ogni dettaglio di quell’istante: l’arredamento, il colore del mio vestito, le mie scarpette da mezza punta di pelle rosa sul pavimento marmorizzato, ma soprattutto mi ricordo quello struggimento tremendo, perché è stato il momento in cui ho percepito per la prima volta che le sensazioni scaturite dalla danza non sono solo legate alla gioia e alla felicità, ma è possibile anche sentire ed esprimere tristezza.

Per molti anni ancora, successivamente a quell’episodio, ho continuato a danzare con quella leggerezza e distacco iniziali, che mi permettevano di non addentrarmi nei meandri delle mie zone oscure. Poi qualcosa si è spezzato e purtroppo ho perso per sempre quella innocenza. La danza è diventata il mio lavoro, e non sempre la nostra relazione si è dimostrata così rosea e luminosa, al contrario ho attraversato territori desolati e desertici in cui quasi mi è parso di non poterle più stare accanto, ma questa è un’altra storia.

La cosa importante è la memoria di quel momento, di quella bambina che è ancora in me, in ciò che sono, e la possibilità di tornare da lei per ritornare a vedere la danza con i suoi occhi: un serissimo gioco, da affrontare senza paura, senza freni o inibizioni, con il cuore aperto e coraggiosamente pronto a vivere.

Perché per me il senso più puro della danza è tutto racchiuso in quel ricordo.

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