Al suo debutto in Italia, sulle note sublimi della musica di Čajkovskij, interpretata per l’occasione dall’orchestra del Teatro Regio diretta da Pedro Alcalde, La Bella Addormentata, nella versione coreografica di Nacho Duato, creata nel 2011 per il Balletto del Teatro Mikhailovskij, di cui lo spagnolo è stato direttore (il primo non russo) fino al 2014, non ha mancato di incantare il pubblico, registrando il tutto esaurito per quasi tutti gli appuntamenti.
La prima cosa che colpisce fin dall’apertura del sipario sono le scene e i costumi, firmati da Angelina Atlagić, in cui il bianco e le tinte pastello hanno la prevalenza assoluta, espediente che ha l’effetto di ampliare lo spazio e dare luce all’ensemble. La scenografia è lineare, quasi neoclassica nella rappresentazione della sala dei ricevimenti e della sala del trono, così come lo sono i costumi, eleganti, raffinati e semplici, fatta eccezione per quanto riguarda quello della strega Carabosse e, in relazione alla scenografia, per il roseto che scende sulla principessa Aurora nel momento del suo risveglio, un po’ rococò ma di grande impatto visivo e gradevole proprio per la sua sovrabbondanza.
Rispetto alla scansione coreografica della tradizione Nacho Duato inserisce alcune modifiche ed innovazioni che danno al balletto un impianto decisamente moderno: si eliminano qui quasi tutte le danze di carattere, tipiche della tradizione russa, e il terzo atto è alleggerito, nel divertissement, dalla mancanza di entrambe la variazioni della coppia di uccellini azzurri, nonché di altri momenti danzati che sono invece presenti nelle scritture più tradizionali.
Nel ruolo di Aurora Iana Salenko, prima ballerina dello Staatsballett di Berlino dal 2007, interprete minuta, molto adatta al ruolo, qui particolarmente raffinata e quasi principesca ma non in forma smagliante; non particolarmente brillanti, a livello tecnico, alcuni momenti della performance di altri solisti della compagnia, soprattutto per quanto riguarda l’esecuzione dei giri, spesso un po’ debole, senza incidere comunque, nel complesso, sul livello dei danzatori, tecnicamente molto buono.
Un po’ sottotono alcuni momenti del primo atto, fra cui Prologo e variazioni delle fate (quasi manierato e sovrabbondante l’uso delle braccia, che migliora poi successivamente), in cui la Fata dei Lillà, altra grande protagonista del balletto, è risultata essere un personaggio piuttosto debole, facendo sorgere il dubbio di non essere effettivamente all’altezza di affrontare una presenza come quella di Carabosse, al contrario molto incisiva.
In un balletto-fiaba, fondamentalmente privo di personaggi di rilievo che offrano uno sviluppo e un approfondimento nel corso dello svolgimento della vicenda, che resta in sé abbastanza leggera, e in cui non è così facile parlare di interpretazione artistica, l’unico personaggio che spicca in modo particolare, dotato di una forza scenica notevole, sottolineata anche dalla musica, è quello della strega Carabosse (nel ruolo, Rishat Yulbarisov). Nacho Duato riprende, nel suo balletto, l’idea originale di Marius Petipa, secondo cui la strega cattiva è interpretata da un uomo; questo espediente dà alla sua figura una forza e un’incisività ancora maggiori. In questa versione l’ingresso della strega è reso in maniera spettacolare da un enorme telo nero fluttuante che per un istante nasconde tutta la scena rivelando poi, al suo scomparire, la presenza di Carabosse e del suo seguito aracneiforme. Di grande impatto il costume scenico indossato dalla strega, di colore nero ma con inserti bianchi nella parte superiore, che ricorda la gonna dal lungo strascico creata alcuni anni fa dallo stilista Giorgio Armani per il famoso ballerino di flamenco Joaquìn Cortés ed esposta in occasione della mostra Alta Moda, Grande Teatro allestita nel 2014 presso la Reggia di Venaria.
Il linguaggio espressivo utilizzato dal coreografo è molto particolare: pur restando nel solco della tradizione classica (non bisogna dimenticare che non si tratta di un totale rifacimento del balletto in chiave moderna, come fece, ad esempio, Mats Ek), Duato inserisce molti elementi propri del suo stile personale, nonché suggestioni che rimandano ai grandi maestri del suo tempo, ossia il già citato Mats Ek, ma anche William Forsythe e Jiří Kylián, riconoscibili in modo particolare nel terzo atto, nel pas de deux dei gatti e in Cappuccetto Rosso, ma anche negli ensemble del primo atto e, soprattutto, nella danza del seguito di Carabosse, che segue un codice decisamente più contemporaneo.
Complessivamente uno spettacolo assai gradevole e particolarmente sontuoso, in cui Nacho Duato ha coniugato il movimento, declinato secondo un linguaggio moderno e lineare, svecchiato da molti pesanti manierismi, con la partitura musicale, per un grande classico del repertorio che da sempre rappresenta una delle vette più alte raggiunte dall’arte tersicorea.
(La recensione si riferisce alla rappresentazione di sabato 17 dicembre h. 14.30, n.d.r.)
Crediti fotografici: Yan Revazov